Capitolo 11

331 28 13
                                    

Se c'era qualcosa che odiavo, era l'attesa.

La mia mente, che aveva un bisogno costante di essere stimolata, si stava lentamente spegnendo; ero disinteressato e insolitamente immotivato a fare qualsiasi cosa. Dopo alcuni giorni in cui mi ero limitato ad esistere – dormivo, mangiavo, leggevo come un automa – non ce la facevo più. Continuavo a pensare a quella notte, perdendomi tra scenari ipotetici e immagini di quello che era effettivamente accaduto. Non avevo dato un altro pugno al muro, ma le mie mani fremevano dal desiderio di stringersi ancora attorno al collo di Jamie. Sapevo che era solo questione di tempo prima che perdessi di nuovo il controllo.

Quel pomeriggio, mi sentivo ancora più irrequieto del solito. Dopo aver gettato sul letto la mia copia dell'Amleto, saltai in piedi e indossai il cappotto. Leggere di fratelli assassini e figli vendicativi non avrebbe placato il mio cervello. Avevo bisogno di muovermi, di fare qualcosa. Non avevo nemmeno qualcuno con cui sfogarmi. Non vedevo Thomas o Christian dall'ultima volta che avevamo parlato e mi chiedevo se li stessi inconsciamente evitando di proposito. Andavo nella sala da pranzo quando sapevo che non sarebbero stati lì, e in biblioteca e nella mia Sala Comune durante la notte o la mattina presto, prima ancora che sorgesse il sole.

Avrei passato il mio tempo alla cabina con Alexi, se la mia scomparsa non avesse destato ulteriori sospetti. Potevamo anche fingere che uno di noi stesse male - era facile dire che Paola si sentisse un po' giù e preferisse rimanere nella sua stanza - per tranquillizzare i più resoluti ficcanaso del castello; ma noi altri dovevamo continuare a mostrare una certa parvenza di normalità e questo significava presentarci ai pasti, studiare nella Sala Comune dove la gente potesse vederci e non avvicinarci per nessun motivo alla cabina.

«Ciao, Ben.»

Saltai dallo spavento nel sentire il mio nome. Mi resi conto che ero rimasto davanti alla mia porta, perso nei miei pensieri, da chissà quanto tempo. Perché sono uscito? Oh, giusto. Volevo fare una passeggiata. Erano le tre del mattino e avevo immaginato che nessuno fosse sveglio, o sicuramente non in giro, a quell'ora. Ma ecco Clara, la migliore amica di Selene. Indossava una camicia da notte e delle pantofole; i suoi lunghi capelli castani erano legati in una crocchia disordinata e i suoi occhi azzurri sembravano assonnati dietro gli occhiali rotondi. Aveva l'aria esausta.

«Ciao. Che fai sveglia a quest'ora?» chiesi, con disinvoltura.

Lei scrollò le spalle. Poi, le tremò il mento. «Non riuscivo a dormire», sussurrò. «Sono preoccupata da morire.»

«Preoccupata?»

«Per Selene.»

Cazzo.

«Cosa— cosa le è successo?»

«Non te ne sei accorto?» Il suo viso si contorse in una smorfia inorridita, come se fosse impensabile per lei che non avessi notato la scomparsa della sua amica. Se solo avesse saputo quanto pensassi a Selene ultimamente.

«Mi dispiace, no», dissi, sperando di sembrarle sincero. «Che cosa-?»

«È scomparsa!» L'urlo soffocato di Clara echeggiò nel corridoio.

«Ah sì?»

«Sì! Per caso ti è capitato di incontrarla?»

«Mi dispiace», ripetei. Non sapevo cos'altro dire.

Clara si curvò su se stessa. «Non è da lei sparire senza dire nulla. Un giorno era qui, e il giorno dopo... oh, Dio. E se le fosse successo qualcosa?»

«Tipo?» Ridacchiai. «Siamo in mezzo al nulla.»

«Beh, il villaggio non è molto lontano da qui. Qualcuno vive lì. E se le avessero fatto del male?»

Gilded Cage - L'illusione della libertàDove le storie prendono vita. Scoprilo ora