Capitolo 18

237 18 8
                                    

C'è stato un tempo, in cui ci tenevo.

Tenevo ai miei studi e alla mia carriera; ai vestiti che indossavo; ai libri che leggevo e ai film che guardavo, alle passeggiate nel parco e al coccolarsi a letto dopo una lunga giornata. Ci tenevo a sentire il calore del sole sulla pelle e a gustarmi una bibita fresca in compagnia, alla sensazione di un bacio appena accennato e di qualcuno che mi aspettava a casa. C'è stato un tempo in cui ci tenevo davvero al mio presente e al mio futuro.

Mentre giacevo sveglio sul letto, fissando il soffitto, con la sua voce che ancora riecheggiava nella mia testa, mi resi conto che non tenevo più a nulla del genere da molto tempo. Per otto lunghi anni, la mia vita era stata solo una serie di mansioni che avevo portato a termine per andare avanti, per continuare a muovermi in un mondo che aveva perso il suo significato. Ero vivo, ma non vivevo.

La mattina dopo la chiamata di Thomas, mi ero aspettato che il mondo fosse diverso. Perché io mi sentivo diverso. Stavo combattendo una guerra dentro di me e presumevo che, in qualche modo, tutto e tutti ne fossero stati toccati. Mi rifiutavo di pensare che queste lotte fossero solo mie. Quando entrai nel cortile principale del campus, però, mi resi conto che nessuno vedeva, nessuno sapeva con cosa avevo a che fare. Tutto era uguale. E per me, non era giusto. Perché dovevo essere l'unico a lottare? Perché dovevo portare tutto quel peso da solo? No, non sarei stato in grado di sopportare nessuno. Non potevo accettare che fossero tutti inconsapevoli; non sarei riuscito a mantenere la calma.

Stavo per voltarmi e tornare a casa, quando vidi una figura familiare rannicchiata su una panchina. Avrei riconosciuto quell'ammasso di capelli e vestiti sporchi ovunque. Quindi, mi avvicinai a lui, dimenticandomi temporaneamente della mia fuga.

«Jones?» gli chiesi, una volta che fui abbastanza vicino da permettergli di sentirmi.

Quando James alzò la testa, smisi di respirare. La sua faccia era piena di lividi e tagli; aveva gli occhi gonfi e del sangue secco sul sopracciglio sinistro e sulle labbra. Lo fissai incredulo, incapace di pronunciare una sola parola. A volte, l'avevo visto venire a lezione con un livido o due, ma non era mai stato così grave. Non era opera di qualche teppistello incazzato perché James gli aveva dato dello stupido. Questo era qualcosa di peggio; qualcosa di più brutto.

«Cosa ti è successo?»

James abbassò la testa, stringendo le mani sui pantaloni. Lo osservai per un attimo, aspettando una risposta che non arrivò mai. Quando il silenzio si prolungò troppo a lungo, mi avvicinai e gli presi il mento tra due dita, costringendolo ad alzare lo sguardo su di me.

«Che. È. Successo?» chiesi di nuovo, più deciso.

Le sue palpebre tremavano, così come le sue labbra. Si stava sforzando di non piangere, ma una lacrima gli sfuggì comunque, bagnandomi il pollice. Quando parlò, la sua voce suonò rauca.

«Io—» Deglutì. «Sono caduto.»

«Sei caduto», ripetei a pappagallo, accigliato.

«Sì.»

Lo lasciai andare, facendo un passo indietro.

«Sai, Jones, se c'è qualcosa che odio davvero tanto sono i bugiardi. Questi», dissi, indicando la sua faccia incasinata, «non sono lividi dovuti a una caduta. Quindi, te lo chiederò ancora una volta. Che. Cazzo. È. Successo.»

Le lacrime fuoriuscirono libere, scorrendo sulle sue guance rovinate. «Mi dispiace», mormorò.

«Perché ti stai scusando?»

«Io... non lo so.»

Le sue spalle tremavano ad ogni singhiozzo.

«È stato uno studente?» Mi guardai intorno per vedere se riuscissi a riconoscere qualcuno nelle vicinanze che gli avrebbe potuto fare del male, ma non vidi nessuno che conoscessi. «Posso farlo espellere.»

Gilded Cage - L'illusione della libertàDove le storie prendono vita. Scoprilo ora