VIII

17 1 0
                                    

Quando ero solo una bambina, avevo visto lungo la strada per tornare a casa un agnello morto, circondato da corvi che spolpavano il suo cadavere, spiluccandone le carni con fame vorace. Si erano già avventati avidamente su occhi e lingua, prima ancora che fossi arrivata rimanevano solo due orbite vuote e una bocca grondante sangue.
Un inizio di decomposizione causato probabilmente da un'intera giornata sotto il sole di tarda estate incollava al vento che soffiava nella mia direzione quel lezzo ferroso e pungente. Rimasi a guardare l'agnello per un po', indecisa su come dovessi sentirmi. Non ero stata triste. Forse stupita dall'improvvisa comparizione. Di che crudeltà avrei potuto biasimare i corvi, aver mangiato per fame?
Gli uccelli avevano continuato a banchettare con l'animale finché non l'avevano ridotto a una carcassa ornata di qualche sparuto brandello di carne. Poi, soddisfatti, avevano spiegato le ali e si erano dispersi sugli alberi, in attesa del pasto successivo.
Solo allora ero andata via.

La mattina del 6 novembre 1917 mi sentivo come quell'agnello. Non so perchè mi fosse venuto in mente, ma appena sveglia me l'ero trovato impresso sulle palpebre. Erano anni che non ci pensavo.
Mi alzai dal letto e raggiunsi la finestra. L'alba non mi aveva mai entusiasmato, ma era l'unica abitudine da Smirnova che mi fosse concesso mantenere da Romanova. Era come riuscire ad essere ancora a casa per una decina di minuti al giorno. Scrutai il cielo vivo, tonalità di arancione - albicocca, corallo, cartamo, pesca - che si stemperavano nei toni pallidi del rosa incarnato. Questa tela astratta era macchiata da squarci rosso ematite che donavano profondità all'orizzonte. Assomigliavano a ferite aperte e insanabili, come se il paradiso fosse stato lacerato con un machete. Così desolanti e fuori posto, ma donavano una bellezza secolare a quel quadro improvvisato. Sembrava un attimo bloccato nel tempo, eterno come una formica cristallizzata in una goccia di resina, ma l'esperienza di una persona che vede albe ogni giorno da tutta la vita mi seppe dire con certezza che quei colori
erano in continuo mutamento.
Impercettibile ma inesorabile.
In una manciata di minuti le strisce
rosse si sarebbero probabilmente
trasformate in blande pennellate
color lampone, prima di lasciare il
posto al cielo grigio platino.
Se c'era una stagione che
disprezzavo, quella era l'inverno.
Aveva il detestabile potere di
rendere tutto insipido e freddo,
fagocitando ogni colore e
dipingendo il paesaggio in diverse
gradazioni di bianco e grigio,
come un pittore squattrinato che
ha finito i colori più comuni della
tavolozza.
Assistetti alla vista di quei tagli scuri con occhi meravigliati. Sarebbero stati l'unico colore acceso per tutta la giornata, guardando in su.
Pareva che il cielo si fosse ferito per solidarietà, solo per mostrare a tutta la Russia il dolore che io non ero in grado di esporre.
Avrei osservato quel singolare spettacolo per sempre. Non mi sarebbe mai più ricapitata un'alba uguale. Simile, al più. Ma il rosso non avrebbe mai più tinto il cielo con una sfumatura identica a quella, e i colori non avrebbero mai più formato quel tranquillo sfondo chiaro, perfetta base per gli squarci grondanti sangue che violentemente la imbrattavano. Era una vista ipnotica.
Quasi mi dispiacque per Dio, incapace di creare qualcosa che non fosse un'opera d'arte, cosicché gli uomini rimanessero rapiti a contemplare anche le sue ferite sanguinanti, senza curarsi della sofferenza che provocavano.

Mi chiesi cosa vedesse Vasilisa in quel cielo, venendo verso Palazzo di Alessandro da sola. Se lo stesse guardando, se intuisse quel rosso come un tormento divino, se non stesse fissando il terreno come era solita fare, con le labbra rigidamente serrate e gli occhi duri, a rimproversi di stare vivendo ancora un giorno la vita che era destinata a condurre dalla sua nascita. Mi chiesi se la velata malinconia che coglievo spesso in lei fosse stata sostituita da una rabbia più fervente. Perchè ora aveva il motivo perfetto per odiarmi: io, che lo volessi o meno, ero scappata dagli Smirnov. Lei no.
Mi sarebbe piaciuto sapere se la rassegnazione impensierita che le ammorbidiva il viso senza che se ne accorgesse fosse ancora lì, intoccata, o se adesso fosse riservata alle sue notti insonni, mentre era certa che nessuno la stesse guardando.
Vasilisa non era un'anima cattiva. Era solo una ragazza che si era facilmente fatta sedurre da desideri che non poteva far avverare. Sarebbe stato più semplice, se non fosse stata costretta ogni giorno a servire persone che avevano ciò che più voleva. Vasilka era fatta per ostentare sentimenti, per rimuginare, per invidiare. Di natura ombrosa e riflessiva, la mia schiva sorella non poteva tollerare un mondo nel quale esistevano persone che vivevano il suo sogno personale, uno dei pochi che avesse
mai fatto.
Vasilka era capace di volere solo in un modo: con tenacia e ostinazione. Era la crepa che rovinava la sua facciata, scavando nel suo animo una conca sempre più profonda. Non era in grado di riempirla se non con il disprezzo. Mai avrei saputo dire se colmare ogni vuoto con quel terriccio sterile e velenoso lo rendesse davvero meno doloroso, per lei. Per un momento desiderai ardentemente che imparasse presto che esistevano molti altri modi per condurre una vita più tollerabile.

The tsars' Russia: the untold endDove le storie prendono vita. Scoprilo ora