"Katija!"
Sentii la voce squillante di Anja già fuori casa, i suoi richiami la precedettero prima che oltrepassasse la porta e mi corresse incontro.
"Che succede, peste?" Le chiesi allegramente, pizzicandole le guance. Troppo pallide per essere quelle di una bambina. Troppo scavate per essere quelle di una persona sana.
Anastasija non era solamente preda della povertà, aveva anche una malattia alla quale nessuno sapeva dare un nome.
Perdeva i capelli, aveva le osse estremamente fragili, gli occhi sporgenti e alternava momenti di irrequietezza a un'improvvisa debolezza.
Mi inginocchiai per arrivare alla sua altezza e abbracciarla. Era sudata, nonostante l'aria fosse gelida, e il cuore le batteva così velocemente che faticavo a distinguerne le singole pulsazioni.
Mi terrorizzava pensare a cosa sarebbe successo ad Anja perché in fondo sapevo la risposta. Nostra madre aveva venduto la sua catenella dorata del corredo matrimoniale per far visitare Anastasija e sentirsi poi dire che non si aveva la minima di cosa potesse esserle capitato. Era stato inutile. E così mia sorella minore era rimasta malata. Probabilmente sarebbe stata una condizione perpetua, ma la preferivo infinitamente alla sua morte.
"Ti voglio bene, Katija..." sussurrò giocando con il mio ciondolo.
Quasi non udii la sua voce. Per un attimo mi sentii cadere e mi aggrappai alla gonna di Anja. Le estremità del mio corpo divennero leggere, mentre il baricentro si appesantì sempre di più.

"Ti voglio bene, Ira..." 

Percepii all'orecchio una voce di bambina che non era mia sorella, ma lo sembrava. Volli bene a quella voce, per qualche istante.

Mi ritrovai a boccheggiare, sperduta. Smisi di stringere la gonna di Anastasija, che aveva ancora il viso nascosto nell'incavo del mio collo. Ero stravolta da un affetto per qualcuno che nemmeno esisteva.
"Ti prego, Anja, entriamo in casa. Fa freddo." La supplicai con serietà, per poi prenderla in braccio e rincasare. Sembrava non essersi accorta di nulla e io non le chiesi se avesse carpito qualcosa.

"Va tutto bene, Ekaterina?"
Lo sguardo inquisitore di mia madre mi fece quasi sobbalzare.
"Sto bene, Madre. Cosa dovrei avere?" Trattenni la risata nervosa che mi avrebbe smentito e lei riprese a servire mestoli di polenta a tutti.
La sera passò in silenzio. Non si parlava tanto, in casa. Non c'era molto da dire e probabilmente sarebbe anche scaturita una discussione fra Vasilisa e qualcun'altro, quindi la cena trascorse vuota e desolata come al solito, prima che tutti andassimo a dormire.

"Alix, è stato due anni fa... sono già passati due anni dalla sua morte..."
Una donna piange, un'altra, quasi interamente di spalle, le tiene le mani e annuisce tristemente.
"Non puoi vivere in questo modo per sempre. Hai una figlia da crescere, Ella, non puoi abbatterti in questo modo." Replica decisa quella di cui non vedo bene il viso.
Sembra che io stia osservando la scena da dietro una porta socchiusa o qualcosa di simile. Faccio un passo indietro, muovendo accidentalmente la maniglia.
"Ira? Ira, tesoro, sei tu?" Chiede la donna che stava piangendo, alzandosi e asciugando le lacrime in fretta dopo avermi sentito essere lì.
"Irina?"

Mi svegliai rigida come una statua di marmo, con impressa sulle palpebre l'immagine evanescente di una donna che camminava nella mia direzione e quello stupido nome che mi stava perseguitando da giorni ancora ad echeggiarmi nelle orecchie.

"Irina?"

Quella parola mi rimase in testa per tutta la giornata.
"Madre, abbiamo una qualche parente di nome Irina?" Chiesi durante la cena, una sera.
"Non mi pare." Rispose confusa, accigliandosi. "Per quale motivo?"
"Ho sognato una bambina con questo nome..."
"Magari vostra cugina Iulija è rimasta incinta. Dovremmo andare a trovarla, forse quando..."
Si morse il labbro, evitando di dire ciò che ognuno di noi tacitamente aveva capito.
Quando Anja si fosse sentita meglio.
Quando avesse perso il gonfiore alla gola.
Quando fosse guarita. Se fosse guarita.
O quando fosse morta. Chiaramente se fosse morta.
Avrei sperato nella prima opzione con tenacia, se ne avessi avuto la forza e fossi stata abbastanza sciocca da credere alla possibilità di un simile miracolo. La disillusione era la prima cosa che si imparava, quando si nasceva in famiglie simili alla mia.

Darijana fece il segno della croce.
Fronte, petto, spalla destra, spalla sinistra, Amen.
Io la imitai. Vasilisa replicò il mio gesto. Aleksandr pure. Anastasija seguì l'esempio.
Pregavamo tutti per lei, i due più piccoli inconsciamente, affinché guarisse da sola. Affinché stesse meglio. Anche solo affinché non morisse per qualche tempo ancora.
Abbassavamo le pretese anche mentre pregavamo Dio perché non c'era stolto che non sapesse che più sono grandi i favori che chiedi, meno sono le probabilità che vengano accolti.

Anche la sera pregai, incapace, ancora una volta, di prendere sonno.
Pregai per il raccolto, per Anastasija, per la famiglia imperiale, per Iulija che forse avrebbe avuto un figlio, pregai perché qualcuno desse un significato ai miei sogni e poi smisi anche di pregare per qualcosa, semplicemente recitai litania dopo litania, nella mente, per quelle che mi parvero ore.
Infine volli ardentemente non fare sogni, almeno quella notte, ma non venni ascoltata.

Sono in una sala enorme e vivacemente addobbata con ghirlande, centritavola di pungitopo, festoni rossi e verdi e un grande albero agghindato con dolciumi e nastri dorati. Qualcuno sembra cantare qualcosa, ma non capisco da dove provengano le voci.
Accanto a me c'è un bambino che non può avere più di tre anni. Sembro stare giocando con lui.
"Fai attenzione, Ira!" Esclama una donna, la stessa che avevo visto piangere.
"Aleksej è un bambino fragile. Non puoi fargli male..." spiega con pazienza.
La dolcezza di questa donna è familiare, per qualche strana ragione.
"Mancano tre giorni a Natale!" Esclama all'improvviso una bambina, poco più grande del mio apparente coetaneo, entrando nella stanza.
"Sai dov'è la mamma?" Chiede poi alla donna.

Non sentii la risposta perché d'un tratto mi alzai a sedere sul letto. Mi doleva il petto e mi sentivo respirare affannosamente, come se dormendo avessi tenuto la testa sott'acqua.
"Cosa succede?" Chiese Vasilisa, stranamente preoccupata.
"Cosa intendi?"
"Stavi blaterando qualcosa nel sonno, sembrava una canzoncina, ma non era in russo. Mi hai svegliata."
"Come... cosa intendi quando dici che non era in russo?"
"Sembrava un'altra lingua. Come diavolo fai a sapere una canzone straniera?"
"Io non... lo sai bene che so una sola lingua. Sono nata e cresciuta in questa casa, esattamente come te e Sasha e Anja."
"Torna a dormire, Katija." Mi suggerì mia sorella con voce assonnata. Riconobbi però un sottotono allarmato nella sua voce. Una piccola crepa nella sua bugia perfetta.
"Vasilka?"
"Sì?"
"Ti voglio bene."
Il silenzio regnò sovrano per qualche secondo.
"Anche io."

NOTE:

• Alix è il diminutivo affettuosamente affibbiato ad Aleksandra Feodorovna.

• Ella è il diminutivo di Elizaveta.

• Il segno della croce ortodosso è invertito rispetto a quello cattolico: la croce parte dal lato destro del corpo, e non dal sinistro.

The tsars' Russia: the untold endDove le storie prendono vita. Scoprilo ora