La mattina del 19 novembre 1917 sembrava a tutti identica alle precedenti. Il giorno successivo sarebbero arrivati Marija e suo marito, undici giorni dopo ci sarebbe stata la mia entrata in società. Ma io non sarei stata presente. Avevo passato ore intere alla finestra, nei giorni precedenti, a studiare i movimenti delle guardie e l'aria di perlustrazione di ognuna, e in uno o due giorni mi sarei svegliata da questo incubo troppo vivido.
"E tu, invece, Irina?"
"Sì, anche io preferisco il burro alla marmellata." Risposi a Marija Nikolaevna, che aveva chiesto il mio parere durante una giocosa lite con sua sorella minore.
Dall'altro lato del tavolo Aleksej mi sorrise.
Mi sarebbe dispiaciuto lasciarlo. Solo lui. Ma non era abbastanza a tenermi lì. Non da solo.
"Mi sembri più contenta in queste ultime settimane." Constatò Nikolaj.
"Sto imparando ad accettare questa nuova realtà." Risposi con un sorriso, ma negli occhi avevo tanto fervore e tanta ira che penso si fosse accorto anche lui del sarcasmo nelle mie parole. Ingoiai una cucchiaiata di kaša, rialzando di nuovo lo sguardo con un sorriso meglio congegnato. Tatijana e Olga si alzarono prima da tavola, intuendo il clima tesa che aleggiava fra di noi. Nei minuti successivi sorpresi spesso Nikolaj a fissarmi, salvo poi distogliere lo sguardo appena appreso che avessi incontrato i suoi occhi.
Quando ormai avemmo tutti finito, lo zar controllò il suo orologio da taschino e si alzò da tavola, seguito da noi.
"Non tu, Ella, vorrei discutere con te di una questione, se possibile."
Intuendo che il colloquio fosse privato, per quanto frustrata dovetti seguire gli altri fuori dalla stanza. Però forse... Mi ci vollero due passi e mezzo dopo l'uscio, per decidere se spingermi oltre i limiti del consentito o se rimanere ignara di cosa dovessero dirsi.
A metà scale mi tastai, guardandomi attorno e cercando qualcosa. "Cavoli! Ho dimenticato il mio orologio. Torno subito."
Mi voltai, agguantando la ringhiera, ed ero già arrivata in fondo agli ultimi scalini quando udii il loro disinteressato assenso. Mentre mi gettavo nel corridoio, mi scoprii stupita di quanto fosse stato facile: non avevo mai posseduto un orologio, come avevano potuto accettare senza alcun dubbio le mie parole? Si fidavano così tanto di me? Dieci metri prima della porta rallentai e mi chinai per guardare dalla serratura. Il ricordo di quando feci la stessa cosa da bambina mi tornò potentemente alla mente e mi stordì per qualche secondo. Erano ancora lì a parlare, seduti al tavolo. Appoggiai l'orecchio alla porta per sentire più chiaramente cosa stessero dicendo.
"Cosa intendi, Niky?"
"Hai notato anche tu che Irina sembra così più felice negli ultimi giorni."
"Sì, l'ho notato. Non mi sembra una cosa negativa, però." Elizaveta ribattè sulla difensiva.
Nikolaj sbuffò una risata. "Certo, perchè tu sei accecata dall'amore per tua figlia. Cerca di essere obiettiva, Ella: non è nemmeno un po' sospetto?"
Elizaveta scostò la sedia, oltraggiata. "Questa discussione finisce qui."
"Ella."
Questo richiamo paterno bastò a farla attendere, e lo zar ritrattò con pazienza: "Sii ragionevole. Voglio che tu la tenga d'occhio, solamente questo, va bene? Temo che la sua giovialità non sia solo abitudine..."
Un singhiozzo sfuggì dalle labbra di sua cognata: "Ti stai sbagliando, Nikolaj. Te lo dimostrerò." Poi aggiunse: "E anche Irina lo farà."
"Spero davvero sia così, Ella, ma nel frattempo baderai che non faccia nulla di avventato."
"Non voglio dubitare del mio stesso sangue."
"Ella, ti prego. So per certo che mi ricrederò, ma per adesso ti chiedo di prestare un po' più di attenzione. Solo questo." Il suo tono cupo si alleggerì, di nuovo complice e incalzante: "Ho la tua parola?"
Un sospiro, il suono di una finestra che veniva aperta e poi subito richiusa.
"Hai la mia parola."
"Ah, e... Ella? Non un singolo accenno della nostra conversazione con Irina."
Se inizialmente avevo meditato di andarmene il 20 novembre, quando tutti fossero stati concentrati su Marija Pavlovna, mi resi conto che non potevo aspettare. Non se sulle mie spalle iniziava a gravare un sospetto tanto rigido.
Dei passi si avvicinarono sveltamente alla porta, e allora sgattaiolai in fretta su per le scale dalla Gendrikova, che vedevo ogni giorno per otto o nove ore e iniziavo a maltollerare.
"Avanti."
Entrai, combattendo la repulsione, e mi sedetti celando in fondo allo stomaco la mia contrarietà.
"Eccoti, finalmente. L'hai trovato?" Chiese con un sorriso educato.
"Che cosa?"
"Il tuo orologio, Marija dice che l'avevi lasciato nella sala della colazione. Adesso l'hai trovato?" Malgrado il suo tono paziente, i suoi occhi indagatori e supponenti mi misero in allerta.
'Lo sa. Sa che non ho un maledetto orologio.'
Provai a scacciare il pensiero, declassandolo a semplice paranoia e ripetendomi che la duchessa non poteva sapere che avevo origliato la conversazione di Ella e Nikolaj se non sapeva che erano lì a parlare. E se loro non avevano lasciato la sala della colazione non potevano averlo detto ad altri. Però se Marija le aveva parlato dell'orologio significava che avrebbe potuto averle anche detto del loro discorso privato...
"No, non l'avevo lasciato lì." Mi sforzai di dire con voce ferma e convincente.
"Oh, che peccato." Nella sua voce falsamente dispiaciuta leggevo ammonimento e delusione, che rendevano difficile distinguere la mia percezione dall'effettiva realtà. Anastasija Gendrikova inclinò la testa, socchiudendo gli occhi, come una volpe china su una gallina. "Se mi dici com'è fatto potrei cercarlo."
"Oh, ma non ce n'è bisogno, davvero." Anche il mio volto venne illuminato dall'ombra di un sorriso che sembrava molto più vero del suo. Se avesse notato che avevo colto la sua provocazione avrei passato guai molto più seri di un orologio mancante. "È simile a quello di Elizaveta, ma con un quadrante più piccolo e lievemente ovale. E credo che fosse in oro." Non mi servì fingere uno sguardo spaventato, mi bastava fare trasparire il mio. "Temo fosse davvero prezioso... cosa dirò ora a mia madre?"
Nei suoi occhi cercai un conforto che non trovai.
"Per favore, non dirglielo, non voglio si arrabbi."
"Sono certa che la Granduchessa non si arrabbierebbe per una cosa simile."
Trattenni il respiro, un panico acre diramato in ogni mia vena.
"Ma se ti fa stare più tranquilla, non gliene parlerò."
Un lieve sollievo sciacquò dal mio viso la tensione.
La Gendrikova accennò un rapido sorriso e continuò a sondarmi con serietà. Finalmente accettando che non le sarei stata d'aiuto, abbassò il suo sguardo da cane da guardia.
"Bene, oggi continueremo da dove ci eravamo fermati ieri. Qualora aveste ospiti, in primo luogo devi..."Dopo cena mi ritirai presto nella mia stanza. Era simile a quelle delle sorelle di Aleksej, piuttosto semplice, di sicuro più di quanto ci si sarebbe potuti aspettare per la camera di una granduchessa. Le pareti, rivestite di pannelli di legno, erano di un color glicine fresco e chiaro. La parete a cui era poggiata la testiera in ferro battuto del letto era tappezzata di icone sacre e crocifissi. Dalla parte opposta, invece, due poltrone e un divanetto dai motivi a fiori di campo era voltati a fronteggiare due alte e strette finestre, davanti a cui riposava mestamente un tavolino in vetro. Fotografie di paesaggi e molte cornici vuote spezzavano qua e là l'azzurro. Poste negli angoli opposti della stanza, due cassettiere, con il piano ricolmo delle medesime cornici in attesa di avere qualcosa da ornare.
Sul soffitto decorato d'oro proiettavo già la vittoria per la libertà che stavo per riacquistare, quando mi raggiunse Ella.
"Ti dispiace se rimango per un po'?"
In quel momento avrei voluto prendere a schiaffi Nikolaj per il dubbio che aveva instillato in Elizaveta, ma mi controllai e la invitai a sedersi sul bordo del mio letto. "Certo che no, vieni."
"Quando eri piccola non volevi mai andare a dormire." Raccontò mentre mi rimboccava le coperte. "Metterti a letto era un incubo. Strillavi e ti aggrappavi a me... e mi si stringeva il cuore a vederti piangere così. Marija, la figlia di Pavel, che a quel tempo viveva ancora con noi, mi aveva consigliato di lasciare che fosse una bambinaia ad occuparsi di te, ma dopo la morte di Sergej mi rimanevi solo tu... così piccola, così fragile e innocente... dovevo pensare io a proteggerti. Forse se le avessi dato ascolto non saresti svanita." Scosse la testa, sussurrando i suoi pensieri senza rivolgerli a me, aprendo la sua testa perchè sbirciassi dentro. "Da un momento all'altro, dissipata, inghiottita dalla terra. E così te ne sei andata pure tu."
Ella si morse il labbro inferiore, guardandomi con dolorosa fiducia. Per un momento desistetti dal mio intento e pensai di poterla accontentare, rimanendo e giocando alla famiglia perfetta che tanto voleva. Ma a casa c'erano le persone che davvero potevo chiamare famiglia e, anche se non era perfetta, non era mai stata solo un gioco. Mentre lei continuava a parlare, io meditavo sui dettagli della mia rocambolesca fuga, badando ad ogni dettagli e creando una via di fuga in ogni scenario che potesse passarmi per la mente. Credevo fosse tutto perfetto. Invece mi addormentai.NOTE:
• La descrizione della stanza di Irina è stata ottenuta sul calco di quella di Olga e Tatijana.
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The tsars' Russia: the untold end
Historical FictionEkaterina è una domestica di Palazzo di Alessandro tormentata da frammenti di ricordi riguardanti un'esistenza che non riesce a rievocare. Qual è il significato della medaglietta dorata che ha al collo? Chi sono le persone che abitano i suoi sogni...