Aleksandra sorride. Sembro stare fingendo di dormire, lo deduco dalla mia visuale semicoperta da un cuscino e gli occhi socchiusi.
"Ha i tuoi lineamenti."
"Non assomiglia a Sergej. In nulla." Constata Elizaveta.
"Ne sei contenta?" Chiede sua sorella, voltando la testa per guardarla in faccia.
Elizaveta si stringe le spalle, muovendosi sulla sedia.
"Avrei preferito avesse qualcosa di lui. Per ricordarmelo." Risponde abbassando il capo, per poi continuare: "Non importa, in ogni caso. È una bambina bella e in salute, e questo è ciò che conta." Sembra poi ricordarsi di qualcosa, perché incassa le spalle e sbircia l'espressione di Aleksandra con la coda dell'occhio.
"Scusa. Aleksej è un dono del Cielo, che stia bene o meno."
A questo punto alzo la testa con un movimento brusco e le due donne si interrompono con un sussulto.
"Irina, perché sei sveglia?" Mi chiede apprensivamente Elizaveta.
"Non arrabbiarti, mamma..." sussurro.

Mi svegliai in un bagno di sudore, bocchieggiando e con ancora sulle labbra le mie parole.
Mi accorsi con orrore che in tutti i miei sogni Elizaveta era mia madre.
Non potei non pensare per tutta la giornata a cosa significasse. Che Vasilka sapesse qualcosa, questo era chiaro anche ai muri. Ma sapevo che se non avesse preso da sola l'iniziativa di parlare non sarei riuscita a cavarle di bocca una sola parola.

La notte del 4 novembre fui gettata in un irritante dormiveglia inquieto. Sentivo dentro di me una sorta di quiescenza, il sangue che pareva non fluirmi più nelle vene mi ostruiva i vasi sanguigni con febbrile pesantezza, e io non potevo non essere distratta da questa staticità crescente e pericolosa. Anche mia madre nell'ultimo periodo pareva sentire qualcosa, perché la vedevo, irrequieta e frettolosa, svolgere le sue mansioni con foga corriva e superficiale. Quando vedeva chissà dove segni premonitori, Darijana difficilmente sbagliava. E proprio mentre percepivo la vecchiaia iniziare a coglierla, davanti ai miei occhi era cominciata una lenta trasformazione: da una donna esperta e, tutto sommato, bella, a un'anima corrosa da ciò che, evidentemente, non poteva rivelare. Passai più tempo di quanto forse avrei dovuto chiedendomi se fosse cominciato tutto in poche settimane o se semplicemente non me ne fossi mai accorta prima.
Anche Vasilisa assomigliava ogni giorno di più a una persona che nasconde qualcosa, non con gravosa diffidenza ma con divertita superiorità. Questi peculiari cambi d'umore non avevano fatto altro che acuire il mio presentimento che sarebbe successo qualcosa. Non avrei saputo dire se positivo o meno.

La mattina era il momento che meno mi piaceva della giornata. L'alba era fredda, sbiadita e triste. Odiavo la malinconia che trasmetteva. L'aria tesa che pareva non percepissi solo io mi rendeva irrequieta. Volevo fuggire. Allo stesso tempo, non volevo nemmeno uscire di casa.
Il cammino trascorse silenzioso e forzatamente spedito. Io e Vasilka passammo assieme dai mezzanini e ci separammo con un breve congedo distratto. La giornata passò straziantemente uguale ad ogni altra. Almeno fino al tardo pomeriggio, quando passando per il corridoio con uno straccio in mano, mi ritrovai l'austera figura di Elizaveta Feodorovna Romanova davanti. Sembrò non badare a me, finché non notò qualcosa che la fece accigliare.
"Dove l'hai rubata?" I miei occhi seguirono il tragitto del suo sguardo adirato sul mio petto. Un luccichio dorato mi fece immediatamente reagire chiudendo un pugno attorno alla medaglietta per nasconderla, come mi era istintivo da sempre. Mi maledissi mentalmente per non essere stata più attenta a vedere se fosse scivolata fuori dai vestiti.
"Non- non l'ho rubata." Balbettai.
"Non mentirmi! A chi l'hai presa?"
Il suo sguardo indagatore mi indusse a rivolgere una muta preghiera agli atterriti spettatori che osservavano la scena dalla porta aperta.
'Ora del tè', pensai analizzando il tavolino e i biscotti al burro che vi giacevano sopra insieme a tazze di porcellana e piattini decorati. Il mio sguardo tornò su Elizaveta, deglutendo.
"Giuro che non l'ho rubata. Ce l'ho da quando sono nata."
Lei inclinò la testa, ispezionandomi e muovendo le pupille lungo tutto il mio corpo. Cominciavo a sentirmi a disagio. E impaurita. Molto impaurita. Tutto ciò che volevo era non essere notata. Mi avrebbe permesso di vivere giornate sopportabili, come aveva sempre fatto.
Le rughe a lato degli occhi della Romanova si distesero, mentre ricambiava l'occhiata di Aleksandra. Quelle che riconobbi essere Tatjana e Olga Nikolaevna mi sembrarono confuse quanto me.

Per un attimo, un solo attimo, pensai ai sogni e a quante potessero essere le probabilità che fossero veritieri.
"Come ti chiami?" Mi chiese ancora Elizaveta mentre lentamente rientrava nella stanza, facendomi cenno di seguirla.
"Ekaterina Ivanova Smirnova, Vostra Altezza." Risposi con prontezza chinando la testa.
"Quando sei nata?"
"Il 16 ottobre 1904."
Di nuovo quell'enigmatico scambio di sguardo fra le due sorelle. Le loro facce illeggibili.
"Non può essere lei." Scosse la testa la zarina.
"No!" Si oppose l'altra, "Non lo puoi sapere. È identica a lei."
"Non aveva nemmeno quattro anni..."
"Tu non riconosceresti Tatjana? O Marija, o Olga, o chicchessia?" Chiese indicando con un gesto della mano le due ragazze al tavolo, ancora sedute.
"È diverso, lo sai."
"Non lo è!"
Elizaveta prese fra due dita la medaglietta, tirando la catenella e di conseguenza avvicinando il mio collo a sé.
"Guarda," continuò indicando le iniziali intarsiate di cui conoscevo a memoria i caratteri "è come la sua."

I.S.R., finemente incise sul cerchio piatto non più grande di una noce.
Cercavo di comprenderne il senso da tutta la vita. Non erano le mie iniziali, né quelle di qualche mio famigliare. Darijana mi aveva sempre impedito di vendere il ciondolo e ogni qualvolta le chiedessi spiegazioni mi diceva solo che era stato un dono dal Cielo.

"Come ti sentiresti se tu trovassi un ragazzo identico ad Aleksej dopo averlo perduto?"
Quando il gesto con la mano di Elizaveta si estese all'angolo della sala potei notare lo zarević in piedi. Tentai di chinare la testa ancora di più, per quanto me lo permettesse la medaglietta ancora fra le mani delle due donne.
'In che diamine di situazione mi sono cacciata?' Pensai in soggezione, continuando a rimproverarmi nella testa e a sillabare preghiere a fior di labbra affinché tutto finisse per il verso giusto.
'Voglio solo che tutto torni come prima,
voglio solo che tutto torni come prima,
voglio solo che tutto torni come prima...' continuai a ripetere disperatamente a me stessa.
La Granduchessa Tatjana si mise una mano sul petto.
"C'è quindi la possibilità che questa sia Irina?"
Nessuno le rispose, e ciò non aiutò me a comprendere meglio cosa stessi facendo di fronte a quelle persone.
"Assomigli in modo particolare a qualche tuo famigliare?" C'era una nota aggressivamente angustiata nel tono di Elizaveta.
"Non... non mi pare." La mia voce fu poco più che un sussurro rauco.
"C'è la più misera possibilità che tu sia stata adottata, ragazza?" Nelle sue pupille leggevo solo la pena tipica delle persone che da troppo tempo non sperano.
Quando tentai di parlare, mi scoprii a non riuscirci. Perché avrebbe spiegato molte cose a cui non ero mai riuscita a dare una risposta.
Non somigliavo a mia madre. Per quel che ricordavo, neanche a mio padre. I miei fratelli erano diversi fra loro, ma la fisionomia di Vasilka, Anja e Sasha era semplicemente diversa. Diversa in un modo inequivocabile. E la medaglietta... e il sorriso ambiguo di Vasilisa ogni volta si nominasse la mia nascita, perché lei sapeva, era l'unica persona viva della nostra famiglia oltre a Darijana a poter conoscere la verità, e i sogni... Dio mio, i sogni, aveva così dannatamente senso che avevo voglia di urlare.
"Io ricordo..." Il mio sussurro, in qualche modo, acquietò tutti. I sogni, quelli che fino a poco prima avrei definito incubi, erano meramente dei ricordi.
"C'era- c'era una grande sala piena di specchi, vero? E poi qualcuno che mi cullava e rideva. E poi c'eravate voi che parlavate di qualcuno e piangevate, e- e c'era un altro bambino, ed era Natale, non è vero?"
Le guance di Elizaveta furono presto rigate di lacrime, poi riuscii solo a vedere la sua spalla. Era strano, ricevere abbracci. Specialmente abbracci da persone nuove. Elizaveta aveva una stretta leggera e quasi impercettibile, ma mi sentivo comunque soffocata. Sentivo il mio cuore battere tumultuosamente in qualche posto fra le clavicole e la gola, la mia cassa toracica era stretta fra le braccia di una donna che non era mia madre.
Che non poteva essere mia madre. Sentii anche i miei occhi offuscati dal pianto, ma non era commozione. Era panico.
Perché questo, sì, questo cambiava tutto.

The tsars' Russia: the untold endDove le storie prendono vita. Scoprilo ora