3 - Il giardino delle due anime

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La sveglia del suo cellulare suonò presto quella mattina, forse troppo presto, perché Emanuele aveva avuto bisogno di cinque minuti pieni per rendersi conto che quel trillo infernale non fosse frutto della sua immaginazione né dei suoi sogni.
Emise un suono simile ad un grugnito infastidito, ancora mezzo addormentato, quando riuscì a far riemergere un braccio dalle coperte per mettere a tacere la sveglia.

Una volta spenta si voltò dall'altra parte.

Si era mosso lentamente tra le lenzuola azzurre e le coperte chiare, strofinando il viso contro la federa del cuscino mentre alcune ciocche di capelli arruffati coprivano a malapena la sua espressione assonnata.

Emanuele aveva ancora gli occhi chiusi, le labbra imbronciate e il cipiglio increspato, come quello che compare sul volto dei bambini quando non vogliono andare a scuola.

Lui avrebbe dovuto lavorare, ma il sentimento che provava in quel momento era piuttosto simile a quello che un tempo aveva provato spesso quando era ancora un ragazzino.

Si stropicciò gli occhi con entrambe le mani, lasciandosi sfuggire l'ennesimo grugnito prima di mettere a fuoco la visuale.

I vestiti che aveva indossato il giorno precedente occupavano ancora il lato vuoto del letto matrimoniale. C'erano anche alcune piccole buste di carta contenenti cartoline e souvenir acquistati in giro per la città che aveva dimenticato di mettere in valigia.

Spostò lo sguardo oltre il letto: dalle ante semiaperte dell'armadio spuntava una delle giacche che aveva riposto al suo interno la sera prima.

Aveva pensato che svuotare la valigia lo avrebbe aiutato a non pensare, ma solo dopo una giacca e due paia di pantaloni aveva capito che l'idea migliore sarebbe stata quella di mettersi a letto e dormire.

Emanuele sollevò la schiena, mettendosi seduto. Dietro le tende scure della finestra che si affacciava sul piccolo balcone si intravedeva il cielo farsi pian piano più limpido.
Rimase ad osservarlo per un po' mentre ascoltava il rumore delle automobili e delle voci che si confondevano tra i rumori della città che pian piano si stava svegliando.

E se la città si stava svegliando, voleva dire che probabilmente Emanuele era già in ritardo.

In meno di un minuto scese dal letto.
Si incamminò velocemente in bagno a fare una doccia fredda, sperando che questa potesse aiutarlo a svegliarsi definitivamente.

Dopodiché, con i capelli bagnati, l'accappatoio addosso e lo spazzolino ancora stretto tra i denti, recuperò dalla valigia un jeans scuro e una maglia nera che decise di indossare insieme a delle scarpe comode e una delle giacche che aveva lasciato nell'armadio.

Controllò l'ora sul display del cellulare prima di tornare in bagno: aveva solamente cinque minuti per finire di prepararsi prima che fosse davvero troppo tardi.

Asciugò i capelli come meglio poté, maledicendo se stesso per aver ereditato da sua madre dei ricci indomabili, e alla fine trovò anche il tempo di cospargersi di profumo.

Recuperò lo zaino con la sua attrezzatura da lavoro, i suoi oggetti personali e poi uscì finalmente dalla stanza.

Si incamminò verso l'ascensore a grandi passi intanto che controllava alcuni messaggi ricevuti sul cellulare: un paio erano di sua sorella Letizia che gli ricordava di inviarle qualche foto di Lisbona nel corso della giornata, richiesta che aveva espresso insieme all'utilizzo spropositato dell'emoji di un diavoletto arrabbiato.
Una decina di messaggi, invece, erano segnati all'interno del gruppo Whatsapp che condivideva insieme ai suoi colleghi.

Non riuscì a leggerli perché le porte dell'ascensore si aprirono subito davanti a lui e senza volerlo, in quel momento, si dimenticò di farlo.

Arrivato al pianoterra dell'albergo salutò con gentilezza i due signori alla reception e poi si incamminò verso il centro della hall, dove vide i suoi colleghi nei pressi dei divanetti che accerchiavano un'elegante composizione floreale.

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