Capitolo 18: l'arco e la freccia

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Come ieri, Panfilo sonnecchia accanto a me al posto di Fiammetta. Io mi alzo dal letto e indosso velocemente un abito dei miei in un angolino della stanza, facendo attenzione a non svegliare Panfilo, che se mi guardasse in questo momento vedrebbe solamente una ragazza bassa e bionda che lotta con i lacci del suo vestito. Senza Fiammetta ad intrecciare i nastri nel retro del corsetto non so come farò. Li tiro verso l'alto, stringendoli con tutte le mie forze e sapendo che, se dovessi lasciarli tutto il mio vestito crollerebbe a terra.

Li annodo anche se le braccia mi fanno male, strizzo gli occhi e trattengo l'istinto di abbassare le mie braccia.

Solo che delle mani sfiorano la mia schiena e mi tolgono i lacci dalle dita. Li annodano e li stringono, assicurandosi che non mi comprimano il busto rendendo scomodo il corpetto. Rilasso le braccia e le faccio penzolare lungo il mio corpo, sussulto ogni volta che la mia pelle è troppo vicina a quelle mani.

<<Così va bene?>> Chiede con voce roca e assonnata poggiandomi i suoi palmi sulle spalle, non vedo il suo viso perché sono ancora faccia a faccia con il muro, ma percepisco il suo respiro caldo e lento sulla nuca.

<<Sì... grazie>>

<<Prego, Cacciatrice>>

Non incontro il suo sguardo, perché se lo facessi mi ritroverei ad arrossire prendendo il colore di un pomodoro maturo. Invece afferro il pomello dorato della porta e mi dirigo fuori.

<<Non mi aspetti, Emilia?>> Mi chiede con tono offeso.

<<Oh, non pensavo volessi venire. Attendo qui fuori.>> Sapevo che sarebbe voluto venire, ma l'imbarazzo mi fa pizzicare le guance solo a pensarci. Sono capace di comandare, di litigare, di combattere e persino di uccidere, ma fare una domanda pura, innocente e dolce mi riesce troppo complicato. Che problemi ho? Certo che vorrei guardare l'alba con lui come facciamo spesso, certo che vorrei invitarlo a stare con me per ribadire il fatto che mi piace la sua compagnia, ma il mio cervello arrossisce solo a pensarci.

Come ieri mattina, mi dirigo in giardino per accarezzare Lorenzo con il dorso della mano e per poi unire la fronte con il suo muso. E' sempre tranquillo e silenzioso, bianchissimo e bellissimo; sembra uno di quei cavalli descritti nelle fiabe.

E' quasi l'aurora, tra poco il sole ci accecherà con i suoi primi bagliori rosati. Sembra tutto così tranquillo e pacifico; anche ieri lo pareva, finché la torbida voce di Dioneo non mi aveva intossicato le orecchie, facendo svanire ogni briciolo di spensieratezza che mi faceva sorridere.  Ieri, Pampinea aveva ignorato tutto l'accaduto della mattina. Tutti le chiedevano come stesse dopo ciò che era successo con Dioneo, ma lei rispondeva con un apatico "bene" e tanti "grazie per avermi aiutata, lo apprezzo davvero". Queste sono state le uniche frasi che ci ha rivolto. 

E mentre torno alla camera da letto per incontrare Panfilo, mi imbatto in un oggetto che mi incuriosisce. E' una scultura di legno intagliata con tanto di piedistallo sempre nello stesso materiale, che sostiene un arco con in mezzo una freccia orizzontale, pronta ad essere scoccata. 

La piccola scultura è dettagliata, la contemplo girandomela tra le mani. In un lato c'è incisa una scritta. "Dioneo". Stringo la statuetta, è stato qui e la cosa non mi piace affatto.

Che vuol dire questo ora? Perché ci ha lasciato freccia e arco intagliati nel legno?

La piccola scultura era poggiata sull'erba, accanto ad uno dei quattro tronchi. Mi soffermo sul punto in questione e mi rendo conto solo ora di un pezzo di carta rovinata con qualcosa di scritto sopra.

Lo afferro incuriosita e leggo lentamente ciò che c'è scritto.

"Se scagli forte una freccia,  questa, colpendo, farà più male.

Ten damn days ( il Decameron )Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora