Capitolo 1: via da tutto

62 21 8
                                    

Mi bruciano le ginocchia e i muscoli della schiena tirano come se si potessero strappare da un momento all'altro. Il collo mi fa così male che dubito potrò annuire o scuotere la testa per un po'.

Le mie dita incrociate, così strette le une con le altre che le nocche sono pallide e giallognole.

Ma non m'importa quanto male possa fare il mio corpo, m'interessa solo dell'enorme macigno invisibile che sento sulle mie spalle ogni giorno. Vengo qui ogni mattina e passo intere ore inginocchiata ai piedi del crocifisso, senza mai alzare troppo lo sguardo. Appena varcata la soglia della chiesa faccio due segni della croce, perché uno non basta a rendermi degna di stare in un luogo sacro, quando l'unico luogo in qui dovrei stare è nel profondo degli inferi.

Una lacrima solca scappa da uno dei miei occhi e atterra sul pavimento freddo della chiesa di Santa Maria Novella, che ogni mattina mi accoglie e mi tortura. Ci ho preso l'abitudine a pregare per ottenere il perdono, ma so già che i miei sforzi e sacrifici sono vani. Non potrò mai pulirmi del mio peccato, non potrò mai togliere dalle mie spalle quel pesante macigno invisibile sporco di sangue che mi ricorda ogni giorno quanto io sia sbagliata.

Voglio solo sentirmi meglio, voglio solo essere meno colpevole, ma non c'è speranza che anche un solo Santo ascolti la mia preghiera.

Perdonatemi.

Non riesco a pentirmi per quanto io cerchi.

So di aver sbagliato, so di essere sbagliata.

Ma... forse ciò che ho fatto non è stato del tutto un errore.

Forse dovrei portare questo enorme macigno con orgoglio.

Mi vergogno di ciò che ho fatto per come l'ho fatto, ma non vorrei tornare indietro e cancellare il mio atto.

Chiedo perdono, immenso perdono, ma so che è tutto inutile.

So che non ho possibilità di avere la coscienza pulita, ma allora perché continuo a sperarci?

Mi alzo da terra e sollevo il mento verso il crocifisso. Squadro il volto sofferente di Gesù, la corona di spine, i chiodi nelle sue mani e nei suoi piedi.

Poi lo fisso negli occhi, come se potesse davvero vedermi, come se non fosse una statua. E nonostante sia un misero pezzo di legno, non posso non sentirmi giudicata anche sotto il suo sguardo.

<<Ho peccato. Hai ragione, sono sporca di qualcosa che non è ammesso in paradiso>> ammetto senza staccare lo sguardo dalla statua di Gesù.

<<Vorrei davvero morire in pace, con la coscienza pulita e con la consapevolezza di essere una brava ragazza. Ma non lo sono, eppure eccomi qui; giorno dopo giorno inginocchiata come una stupida a elemosinare qualcosa che non otterrò mai.>> Faccio un passo in avanti, sotto lo sguardo della statua che ha un qualcosa di intimidatorio.

<<Hai visto come mi rendo ridicola?>> faccio una pausa e ingoio un groppo di saliva.

<<Mi vergogno, certo, ma non mi pento di nulla.>> Un'altra lacrima mi attraversa la guancia per la crudezza delle parole, che finalmente non sono più dei silenziosi pensieri. Parlare fa molto più male di pensare e me ne rendo conto solo ora.

<<So che non mi perdonerai mai e lo capisco, dopotutto sono io che sbaglio, neanche mi pento di ciò che ho fatto. Ma non potresti fare un'eccezione?>>

"No, marcirai all'Inferno come ti meriti" la voce nella mia mente è esattamente ciò che avrebbe risposto Gesù se non fosse stato una statua di legno.

<<Voglio andare in Paradiso>> getto la testa in avanti. 'Chiunque mi stia ascoltando, per favore, perdonami'.

<<Sarebbe bello, vero?>>

Ten damn days ( il Decameron )Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora