Il patto del barone

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Il barone era giunto nottetempo assieme alla sua servitù

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Il barone era giunto nottetempo assieme alla sua servitù.

Andros Cerigo, questo il suo nome, sui trenta anni alto poco più della media, robusto, non bello in volto, anche a causa delle cicatrici che lo segnavano, alcune fresche della battaglia di Rassicu, che non lo lasciò segnato soltanto nel fisico.

Rassicu era una città stato fortificata. Le mura di cinta alte e spesse, erano costruite con la pietra grigia dalle venature chiare delle cave dei Monti Vodina che si ergevano sulla Penisola di Lodin. Ospitavano i cannoni, armi d'ultima generazione che il re, grazie alle sue ricchezze, si fece consegnare immediatamente. Sul muro esterno si distinguevano due fila di feritoie, che offrivano ad arcieri e balestrieri ottimi punti d'attacco.
Verso l'interno si scorgeva una seconda cinta di mura più sottili, fra queste due mura si potevano notare i tetti dei palazzi più alti e vedere uscire dai loro comignoli il fumo e in cima l'imponente castello dalle torri esagonali dominava su tutto.

Aveva la pianta irregolare: costruendolo avevano seguito la forma della collina su cui sorgeva, vi erano otto larghi baluardi che salivano dalle mura esterne, i merli alti e larghi avevano due punte. Dopo la corte esterna vi era il palazzo dalle alte finestre ad arco.

Il re di Rassicu, Tessa Zigora, governava anche su Punta Dizechi, estremità della Penisola di Lodin, guidata dal fratello Kanios e Pizzo Jerva estrema punta est della regione di Antalya a cui capo vi era la sorella Thira e sull'isola di Beixo più una striscia della costa del continente meridionale, era comandata da Garve Tubal, fratellastro del re della regione e ben felice di avergli sottratto quella striscia di terra dal grande valore strategico.

Il re Oros, nonostante i pareri contrari dei vari comandanti dell'esercito, volle ugualmente attaccare il regno, con l'intento di assediare e conquistare la città stato. Queste isole si trovavano allo sbocco del golfo di Gaglio e rappresentavano il fulcro dei commerci fra oriente ed occidente.
Tutte le navi dovevano passare da lì e le tasse richieste per poter oltrepassare tranquillamente il confine marittimo erano una tentazione troppo grande per un uomo avido come Oros.

Cerigo si dimostrò un ottimo condottiero, dopo che i suoi diretti superiori furono uccisi o fatti prigionieri, prese lui il comando degli uomini, guidandoli nella presa della città.

Combattendo in prima linea con una tale foga da sembrare un re che guida il suo esercito. I soldati non sapevano se considerarlo un folle o il più coraggioso, ma rimasero talmente affascinati da quelle sue guise, da quella sua potenza non solo fisica, che lo seguirono in battaglia senza il benché minimo scetticismo e vinsero.

Dopo quella vittoria cominciarono a circolare innumerevoli voci su quell'uomo di cui non si sapeva nulla, tranne che giungeva delle terre dell'est. Così Cerigo per alcuni era un eroe, per altri era un demone e per altri ancora era divenuto solo il personaggio di una storia.

Cerigo dal giorno della battaglia, trovava difficoltoso riuscire a dormire e quel caldo che continuamente gli bruciava dentro non lo aiutava di sicuro.

Appena chiudeva gli occhi le immagini e i rumori di quello scontro gli riempivano la testa fino a fargli credere che sarebbe scoppiata. Quell'odore di sangue misto alle polveri degli esplosivi, i cadaveri che bruciavano, li sentiva nelle sua narici come allora.

Cerigo non si sentiva un eroe, allora quando vide che l'esercito di cui faceva parte era in difficoltà rimase paralizzato, tutti quegli uomini che continuavano a cadere uno sopra l'altro formando cataste di cadaveri che ricoprivano la spiaggia sassosa fino a ingoiarla gli davano la nausea. I lamenti degli agonizzanti gli ricordavano i canti delle vecchie durante le veglie funebri. Tutt'intorno era solo morte e fuoco e quella voce nella sua testa che continuava a ripetere "scappa".
Ormai si difendeva come un automa, senza neanche riuscire più a distinguer il volto di chi lo stesse attaccando, parava i colpi e rispondeva con affondi che man mano diventarono sempre più flebili. La sua fine era prossima, lo sentiva.

Poi un'altra voce si insinuò nella sua mente, con la promessa che ne sarebbe uscito vivo e vittorioso se soltanto si fosse dato a lui. Accettò quell'assurda proposta perché credeva di essere impazzito. Appena quel si fu pronunciato dalle sue labbra, un'ombra nera gli apparve di fronte, fitta come la notte che sembra inghiottire tutto ciò a cui si avvicina.
Possedeva due occhi verdi che brillavano ostili, tutto intorno a lui si immobilizzò e scomparve, esistevano soltanto loro due su quella spiaggia, inizialmente fu assalito dalla paura di essere morto e che la creatura di fronte a lui fosse lì per giudicare e dannare la sua anima. L'ombra gli parlò, ciò che disse, per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordarle. Come se avessero stretto un patto segreto che per nessuna ragione al mondo sarebbe dovuto essere svelato, neanche nei suoi ricordi.
L'ombra allungò la sua mano e lo marchiò, da quel momento sarebbe stato suo. Appena svanì la guerra ricomparve attorno a lui nel pieno della sua furia, adesso però lui non aveva più paura.

Dopo quel giorno non rivide più l'ombra, nella sua vita entrarono di prepotenza due donne e un uomo, anche loro marchiati sulla spalla destra con un occhio in fiamme. I suoi ordini passavano attraverso di loro e lui poteva soltanto ubbidire, poiché se non lo avesse fatto non lo avrebbe semplicemente ucciso, gli avrebbe fatto patire le peggiori pene dell'aldilà. Le aveva provate una notte che gli sembrò eterna, quando assalito dai dubbi provò a togliersi il marchio.

Ciò che vide fu talmente surreale da non poter essere descritto a parole, il dolore provato peggio di ogni ferita inferta sui campi di battaglia. Quelle gelide ombre tentacolari, che si avvinghiavano, attaccandosi con minuscoli aculei che bruciavano come tizzoni appena affondavano nella sue carni, allungando i suoi arti fino a quasi staccarli, trascinandolo in lande desolate dove l'aria era irrespirabile, talmente il tanfo di cadaveri era forte, quell'odore non lo avrebbe mai scordato impresso nella sua mente come un tatuaggio, per ritrovarsi poi su terreni pullulanti di corpi che si contorcevano dal dolore che, ululanti, sguazzavano in melma e sangue.
I loro occhi fatti d'abisso lo risucchiavano, trascinandolo in un vortice che sembrava senza fine, proiettandolo da uno spazio all'altro, senza dargli il tempo di riprendersi dalla sensazione di sconforto e colmo di stanchezza, boccheggiava come un pesce gettato sulla riva. Denudato della sua forma umana per essere plasmato, a loro piacimento, in figure che non avevano nulla di umano.

Le loro voci andavano dall'abominevole al celestiale, pronunciavano maledizioni, provava a coprirsi le orecchie, esse invadevano impunemente le sue membra e forzavano la sua mente. Le ombre divennero volti familiari, compagni d'armi o il nemico che aveva ucciso senza alcun risentimento, persone che avevano fatto parte della sua infanzia, o perfetti sconosciuti.

Donne lascive e splendide, dalle cui labbra socchiuse uscivano promesse di piacere per lasciare il posto a serpi che volevano addentarlo, i loro caldi abbracci diventavano cappi pronti a soffocarlo, i soffici capelli si mutavano in ragnatele che si appiccicavano al volto e non riusciva a strapparle via, i loro corpi e ciò che lo circondava perdevano la loro forma, fondendosi in un assurdo ammasso informe.

Al risveglio la febbre lo assalì, costringendolo a letto oltre una settimana. Guarì quando si arrese al fatto che ormai la sua vita non gli apparteneva più.

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