La versione di lui che è ragione del tutto

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Una conca di stretti vicoli senza ordine, simmetria o criterio, un dedalo scheletrico di balconi addossati a cortili, scantinati scavati nel cemento, usci senza porte, scale che portano al nulla- l'entrata di una vera e propria bolgia infernale in...

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Una conca di stretti vicoli senza ordine, simmetria o criterio, un dedalo scheletrico di balconi addossati a cortili, scantinati scavati nel cemento, usci senza porte, scale che portano al nulla- l'entrata di una vera e propria bolgia infernale in stile dantesco, compresa di pene e diavoli.
I bassifondi di Suribachi si presentano così, uno spaccato della società di Yokohama su scala ridotta- e dalle vedute altrettanto ristrette-, sprofondato al di sotto del livello più infimo di dignità e miseria dove i reietti, i rifiuti e i veri randagi si aggirano come anime senza dimora e speranza.
La prima settimana Dazai l'ha trascorsa così, laggiù; dormendo all'addiaccio, tra sottoscala e dislivelli in quel tripudio di cementi sgraziati coperti da una patina perenne di umido e muffa; aggirandosi tra i vicoli incassati nella terra, su e giù per rioni, blocchi e quartieri malfamati; schivando sguardi, lame e rogne e annusando da lontano i suoi abitanti.
Col sopraggiungere della seconda settimana, i primi contatti. Alla terza, un favore in cambio di un tozzo di pane e una bottiglia di liquore scadente.
Trascorso il primo mese, le prime soffiate le fa arrivare direttamente alle "orecchie giuste". Voci, chiacchiere- strizzatine d'occhio nell'ombra, accordi, piccole alleanze. Togliere Dazai dai giri di malaffare è un conto- ma levare il malaffare da Dazai è un altro. E quello gli scorre nelle vene, è parte del suo respiro, che sia mosso da sopravvivenza o criminalità, da bene o male, ciò che conta per lui è il conseguimento del risultato.
Si guarda attorno. A sinistra, la stretta via si snoda fra le palazzine diroccate fino a conficcarsi nel cuore di Suribachi. A destra, spingendo lo sguardo verso l'orizzonte, da una breccia nel cemento fatiscente, in lontananza, luccica il mare.
Rilascia un sospiro, Dazai, volgendo gli occhi davanti a sé. Un alito di vento sottile gli libera gli occhi da qualche ciocca di capelli.
«Non è un granché», commenta, «ma ce lo faremo andare bene».
La mano infilata nella tasca del lungo soprabito beige sgrana uno spago corto e sfilacciato, legato al foro di una chiave di metallo, di quelle vecchie e tozze. È stato il dirigente di una piccola organizzazione locale a fargliela avere a titolo di risarcimento, dopo un diverbio finito in colluttazione con un gruppo di monelli al soldo dell'uomo.
Dazai non doveva essergli sembrato il tipo di persona con cui avere rogne. Il suo modo di parlare, la sua mitezza impalpabile, quel suo sorriso gelido- unito alle voci che sin da subito avevano preso a circolare sul suo conto, rivestendolo di leggende e raccapriccio- gli sono bastati per convocarlo e risolvere la faccenda il prima possibile.
Non voleva inimicarsi certi soggetti, che fossero vere o meno le voci sul suo passato.
«Il racket delle occupazioni», ha tagliato corto Dazai, «è in mano vostra, giusto?».
Per un momento l'uomo si è sentito sfiorare dal sospetto che nessuna di quelle voci fosse vera e che quel giovane fosse in realtà uno sbirro sotto copertura. Un infame, insomma. Uno di quei piedipiatti con poco sale in zucca, drogato di adrenalina ed emozioni forti.
Dazai ha letto nella sua reticenza una chiara conferma. Ne ha sorriso e ha quindi proposto la sua risoluzione alla faccenda.
Ora quella risoluzione gli sta davanti. Piccola, spoglia e tozza, un blocco di cemento diviso dalla strada da un cortile angusto- forse di due metri per due e mezzo- su cui affaccia un'unica finestra e una porta di ferro e ruggine. Più ruggine che ferro, a occhio e croce.
Il suo prezzo per essersi dovuto misurare contro un branco di mocciosi dalle intenzioni ostili- che nel nuovo informatore del capo avevano annusato un aplomb del tutto inusuale, rispetto al contesto in cui sono nati e cresciuti. Estraneo, quindi agiato. Agiato- e quindi ricco. Hanno pensato solo a questo, prima di circondarlo e assalirlo. Erano in otto. Dazai si è lasciato conciare ben bene per le feste dai primi quattro. Poi, ai primi schizzi di sangue, si è liberato degli uni e degli altri.

Acqua corrente sgocciola da un rubinetto nell'angolo della stanza, zampillando in un bacile di porcellana sbeccata. Un fornello elettrico occupa la parete accanto all'ingresso, sormontato da un'anta di legno marcito oltre la quale due bicchieri, un piatto e un cucchiaio riposano sotto un telo di ragnatele. Alla parete opposta, un letto all'occidentale e un tavolino zoppo, addossato al muro. Niente bagno. Una sola finestra.
Affacciato alla porta, Dazai rilascia un lungo sospiro rassegnato e scivola dentro l'abitazione. È dura anche solo definirla tale, ma un tetto sopra la testa è da considerarsi già un lusso, in quella zona di Yokohama dimenticata da Dio. L'umidità e la muffa negli angoli del soffitto, però, gli fanno quasi rimpiangere il container in cui era solito dormire da ragazzino- altrettanto vuoto e scomodo, ma quanto meno asciutto.
«Almeno il letto ha un materasso», sospira di nuovo, sedendosi sopra. Rimbalza un paio di volte, sotto il suo peso le vecchie molle arrugginite cigolano a festa. Sorpreso, Dazai scivola una mano sul tessuto ruvido del lenzuolo. «Uh, ma guarda un po'... è persino comodo».
Si tratta solamente di un paio di anni. Deve tenere duro. Una volta incensurato potrà tornare lassù- parola di Taneda.
E se è lui a dirlo, non può che andare così.

A Yokohama, intanto, la vita e le faccende losche della Port Mafia proseguono al loro solito regime. Quasi non ci fosse mai stato un Dazai in carne ed ossa fra i suoi dirigenti- ma solamente un "prima" e un "dopo" Dazai sulla linea temporale.
Sono trascorsi quasi due mesi dalla sua decisione di andarsene e far sparire ogni traccia di sé. Tra le mura della sede organizzativa, il suo nome pare già relegato al passato- eppure c'è almeno una persona, forse due, che di abbassare la guardia sulla faccenda non ne hanno mai avuta l'intenzione.
«Avanti! Spiegami questa, allora!», esclama Chuuya, sbattendo sul tavolo una chiavetta elettronica legata con un cordino ad un anello per portachiavi.
Hirotsu e Gin si scambiano un'occhiata accigliata. Ha alzato il gomito- di nuovo.
Notando le loro espressioni scettiche, il rosso si indispettisce oltre misura: hanno perso un patrimonio inestimabile, per colpa del gemello di quel minuscolo aggeggio andato perduto. Una chiave elettronica privata, fondamentale per decifrare documenti pieni zeppi di dati, di nomi e cognomi, di abilità schedate, di affari insabbiati, di garanzie ed assicurazioni con cui la Port Mafia riusciva a tenere al guinzaglio molteplici organizzazioni e compagnie tra le più insospettabili.
«Si parla anche di interessi governativi, chi altri sarebbe potuto riuscire a-»
«Dazai, immagino», sospira il vecchio Hirotsu.
«Esatto!!!», tuona Chuuya, inchiodandogli gli occhi in faccia. Ma non lo aveva nemmeno lasciato finire di parlare- e tanto basta a suggerirgli che il vecchio abbia fatto il suo nome per pura condiscendenza. «Mi credi pazzo, eh?»
«Chuuya, settimana scorsa lo hai telefonato da questo stesso locale», risponde l'uomo, liberando un sospiro. «Lo volevi accusare di averti svaligiato casa. Per un cappello. Perché ti è sparito- un cappello»
«Avevo bevuto-»
«Anche stasera non sei in te, ragazzo».
Chuuya serra i denti con violenza, reprimendo un moto di genuino risentimento. Gli occhi annacquati dall'alcol sfuocano i contorni della piccola chiave elettronica e subito il giovane scuote il capo per ridarsi tono e risolutezza. Avrà pur bevuto, ma nessuno gli può levare dalla testa che Dazai sia là fuori a ordire e pianificare nell'ombra, possibilmente anche contro di loro.
«Sei sicuro che la tua sia davvero preoccupazione?»
«Uh?»
«A me sembra», riprende l'anziano, «che tu voglia a tutti i costi scovare il coinvolgimento di Dazai in qualsiasi faccenda che ci riguardi»
«Certo! Perché lo conosco, a differenza vostra-»
«È vero. Lo conosci più intimamente di noi, del resto era il tuo partner», ribatte l'altro in tono fermo. Poi si scambia un'occhiata con Gin, nei cui occhi riverbera una luce più morbida e compassionevole, e Hirotsu sospira. «Chuuya, desiderare che Dazai torni anche nei panni del nemico, dopo due interi mesi in sua assenza- da parte tua sarebbe perfettamente comprensibile. Non so se mi spiego».
Annichilite da quelle parole, le iridi del rosso finiscono strozzate e fagocitate nel bianco. Le palpebre, sempre più sgranate. In bocca il sentore amaro di fiele gli spezza il respiro.
"Era il tuo partner".
Il mio partner- ripete tra sé, serrando le dita attorno al piccolo aggeggio elettronico. Inforcando prima l'una e poi l'altro con uno sguardo tagliente, Chuuya si infila la chiavetta nella tasca del soprabito e si allontana di spalle.
«Per inciso», sibila gelido, «Formalmente Dazai è ancora il mio partner».
La parte stucchevole del "e lo sarà sempre" preferisce tenerla per sé. Non è ancora abbastanza ubriaco per quella.

È Rosso nelle Crepe che hai lasciato Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora