Capitolo due

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«Non ci credo che hai preso una settimana di ferie. Proprio tu! E in questa stagione!»

«Credici. Sto andando in Maine»

«In Maine? Che cosa vai a fare in Maine in autunno? Fa freddo!»

«Vado a staccare la spina» mento con disinvoltura.

«Non potevi farlo ai Caraibi?»

«Costava troppo. E poi sono stata costretta».

«Dal tuo capo? Non ci credo neanche se lo vedo...» Sarah si prende qualche secondo per riflettere, poi aggiunge, con un tono tagliente «Indagherò, puoi esserne certa!»

La mia amica mi riattacca il telefono in faccia. Ovviamente non si è bevuta la mia scusa altamente discutibile. Un po' me lo aspettavo, certo, ma non ho avuto il coraggio di dirle cosa ho in mente. Sono convinta che non approverebbe... o chissà, forse se la prenderebbe perché ho avuto per prima questa idea e non mi sono consultata con lei.

Il nostro, però, è un lavoro solitario e non voglio coinvolgere Sarah in un'inchiesta che non so ancora dove mi porterà.

Per lo meno, per ora mi sta conducendo al Reed Bay Hotel, Maine.

Ci sono poco più di duecento miglia tra Boston e Reed Cove, ma sembra che la strada non voglia mai terminare. Non appena esco dal perimetro di Boston, la città lascia spazio alle campagne, che diventano sempre più selvagge man mano che attraverso Massachusetts, New Hampshire e Maine.

Ogni tanto mi fermo in qualche paesino per bere un caffè o fare benzina, ma quello che più apprezzo di questo viaggio è il privilegio di potermi fermare a riflettere.

È da parecchio tempo che non mi sentivo così eccitata per un articolo.

Quando ho scelto di specializzarmi in giornalismo economico, avevo in mente le grandi inchieste sugli illeciti delle multinazionali e le indagini sul lato oscuro del patrimonio dei multimilionari. Purtroppo le mie aspettative si sono scontrate con una dura realtà fatta di articoli sugli andamenti delle borse asiatiche e sulle previsioni del mercato azionario per il prossimo semestre.

Interessante... per chi è appassionato di numeri e indici di cambio.

Eppure, dentro di me continuavo a sognare quella inchiesta che avrebbe fatto breccia nel cuore dei lettori, e avrebbe lanciato la mia carriera.

Da quel punto di vista, credo che la storia di Rebecca Arden possa aprirmi molte porte, se riesco a giocare bene le mie carte. E, se così non dovesse andare, almeno mi darebbe la soddisfazione di essere stata colei che ha scoperto l'identità della scrittrice più sfuggente delle classifiche americane.

E questa, per il mio ego, piccolo ma non troppo, è già una motivazione sufficiente.

Il sole è ancora alto in cielo quando raggiungo Reed Cove. La cittadina mi accoglie con il suo curato aspetto da classico paese del New England, con le case in legno dipinte di colori pastello, e gli alberi di acero dalle foglie ancora arancioni, nonostante ormai sia quasi inverno.

Il mio primo pensiero è che sembra uscita dal profilo Instagram di un qualche travel blogger. Non c'è un dettaglio fuori posto, nemmeno una foglia secca, al punto che mi chiedo come riescano a mantenere tutto così in ordine... scommetto che da queste parti vige un regolamento cittadino su come tenere il proprio giardino e quando annaffiare le aiuole e che le punizioni, per chi sgarra, sono severissime.

La voce meccanica di Google Maps mi riporta alla realtà: «Al prossimo incrocio, svoltare a destra».

Imposto la freccia, per girare in una stradina che si allontana sempre più dal centro del paese. Stando al navigatore, dovrei arrivare a destinazione in una ventina di minuti. Man mano che mi allontano da Reed Cove, la natura sembra riprendere il dominio sulla civiltà: la strada si fa sempre più stretta, le foglie si accumulano ai margini delle strade, e il rumore del vento e del mare infuria nelle mie orecchie.

Per un attimo mi sento... felice. Insolitamente felice, e libera dalla routine quotidiana. Ma poi mi focalizzo su quello che devo fare: nonostante ciò che ho detto a Sarah, non sono mica in ferie!

Accosto dunque ai margini della strada e mi lascio sfuggire un sospiro. Il messaggio di conferma della prenotazione mi intima di arrivare prima delle 19 per effettuare il check in, dunque ho ancora qualche ora per rifinire la mia strategia.

Il mio piano è semplice: fingermi una turista, stringere amicizia con il personale dell'albergo e capire come arrivare a Damian Zubcic. Certo, soprattutto il secondo punto non è facile, considerato che non sono brava a stringere amicizia con gli estranei, ma, quando si parla di lavoro, divento un'altra persona. Ripassato ancora una volta quello che devo fare –turista, amicizia, Damian rigorosamente in questo ordine– faccio per accendere la macchina ma succede qualcosa che non avevo preso in considerazione.

Il motore non riparte.

"Merda!" penso. La mano scatta subito verso il cellulare, ma l'unica lineetta del segnale sparisce non appena sblocco lo schermo. Trattengo a stento una risatina. Che situazione cliché. Sono una donna sola nel bel mezzo del nulla, il telefono non ha campo, e la macchina non riparte. Solitamente, nei film finisce che o vengo salvata da un rude esemplare di maschio locale, o vengo ammazzata da un esemplare di serial killer locale. Oggi non vorrei a che fare con nessuno di loro.

Esco dall'auto con fare circospetto, e mi dirigo verso il cofano. Mi aspetto che esca del fumo, o quantomeno che ci sia un odore di bruciato, ma la situazione è apparentemente normale. Cerco dunque di aprirlo, ma se c'è una cosa che mi sono dimenticata in questi quindici anni in cui ho preso la patente è come si apre il cofano di una macchina. Credevo che si trattasse di una di quelle azioni automatiche a prova di stupido, ma a quanto pare mi sbaglio. Provo ad alzarlo con tutta la forza che ho, ma quello non si posta di una virgola.

Valuto quanto mi convenga tornare a piedi verso il paese quando una voce maschile mi fa sussultare:

«Signorina, ha bisogno di aiuto?»

Aggiornamento: quello che succede di solito nei film è successo davvero. Esemplare locale o serial killer?

Rivolgo un'occhiata verso il mio salvatore. Lo scruto in tutti i suoi sei piedi e mezzo di muscoli, avvolti in un paio di jeans scoloriti e una camicia di flanella, e decido che si tratta del rude esemplare di maschio locale.

«Ehm...» bofonchio. «Il motore si è fermato».

«Questo lo vedo» commenta lui, sarcastico. Ok, forse mi sono sbagliata e si tratta proprio di un serial killer.

«Ho fatto rifornimento da poco» aggiungo per giustificarmi «e fino a dieci minuti fa non aveva dato alcun segno di malfunzionamento».

«Mmh» commenta lui con espressione assorta. «Da dove vieni?»

«Boston»

Lui rimane in silenzio per qualche secondo. So cosa sta pensando: "il tuo accento non è affatto di Boston", è quello che mi dicono tutti da quando mi sono trasferita sulla Costa Est. Tuttavia, il mio misterioso salvatore non aggiunge altro sull'argomento. Al contrario, mi domanda «e dove eri diretta?»

«Reed Bay Hotel»

Lui solleva un sopracciglio. Lo conosce, è evidente. «Una circostanza fortunata» commenta, e, di fronte al mio sguardo interrogativo, aggiunge: «Si dà il caso che io lavori proprio lì»

Ah. Ripenso al secondo punto della mia lista "stringere amicizia con i dipendenti". Potrebbe essere l'occasione giusta.

«Posso portarti in hotel. Lì potrai chiamare un carro attrezzi per recuperare la macchina».

Cosa fare? Mi fido di un estraneo che dice guarda caso di lavorare per l'hotel dove sono diretta e si offre di darmi un passaggio per arrivare dritta a destinazione?

Dovrei dire di no, ma la situazione non è delle migliori: potrei tornare a piedi fino al paese, ma dovrei comunque arrangiarmi a cercare aiuto, tornare alla macchina e poi arrivare fino all'albergo. Opto dunque per il sì, sperando di non dover leggere il mio necrologio sull'Herald.

Lui mi offre la mano. «Sono Daniel».

«Io sono Hannah».

Rebecca Arden non esisteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora