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Il lunedì mattina si presentò grigio e umido, un chiaro riflesso dell'umore generale in ufficio. Dopo un weekend di riflessioni e pianificazioni, entrai nel palazzone di vetro con un rinnovato senso di determinazione. Le mie scarpe scricchiolavano sul pavimento lucido mentre mi dirigevo verso la cucina, dove il profumo del caffè appena fatto mi accolse come un abbraccio.

Quella mattina certamente non mi scordai della richiesta di John: una tazza di caffè americano, amaro e forte, per affrontare la settimana. "Non dimenticare il caffè, Isabelle. È importante," mi aveva detto con tono autoritario. Io avevo annuito, sentendo il peso della sua richiesta. Non era una semplice cortesia; era un ordine.

Mi diressi verso la cucina e, seguendo le istruzioni di John, preparai il caffè esattamente come lui lo voleva. Con un sorriso malizioso, versai il caffè in una tazza bianca e vi aggiunsi un post-it giallo con una scritta: “Agli ordini padrone!” e baciai il piccolo foglietto laaciando un'impronta del suo rossetto rosso. Nessuno si sarebbe preso gioco di me.

Mentre mi avvicinavo alla scrivania di John, una sensazione di disagio mi accompagnava. Avevo esagerato? John si sarebbe arrabbiato più del dovuto? In fondo si era importante farmi rispettare, ma anche mantenere il posto di stagista, lavorare per la più importante ditta di Londra sicuramente avrebbe svolto un ruolo cruciale nel mio curriculum. Posai la tazza sulla scrivania di John e mi allontanai, cercando di non farmi notare.

La mattinata scivolò via tra riunioni e presentazioni. Partecipavo attivamente, cercando di far sentire la mia voce in un contesto che spesso mi vedeva relegata in secondo piano. Tuttavia, non riuscivo a togliermi dalla testa l’immagine di John e il suo caffè amaro.

Dopo una lunga mattinata decisi di prendermi una pausa. Mi diressi verso il bagno, ma mentre camminavo lungo il corridoio, udii delle voci provenire dall’ufficio di John. La porta, leggermente socchiusa, mi permise di sentire chiaramente quello che stava accadendo.

«Fallo di nuovo Johnny,» disse Betty, con un tono per niente casto e professionale.

Mi fermai, il cuore in gola. Che cosa stava succedendo? La curiosità ebbe il sopravvento. Decisi di avvicinarmi lentamente, cercando di non farsi notare. La situazione era surreale; in un attimo, la voglia di sapere superava la prudenza.

«Tappati la bocca se non vuoi essere licenziata» rispose John, con una determinazione che mi fece drizzare le orecchie. La sua voce, solitamente così controllata, tradiva un’emozione che Isabelle non aveva mai visto prima. Sbrigando leggermente vidi la donna appoggiata alla scrivania e John che le stava dietro reggendola per i capelli. Mi pentii subito di essermi abbandonata alla curiosità e filai dritta in bagno.

Il resto della giornata trascorse lentamente. Mi concentrai sul lavoro, ma il pensiero tornava incessantemente a quell’istante rubato. L’idea di loro due insieme mi torceva lo stomaco. Avrei dovuto affrontare la questione? O forse era meglio lasciare che le cose si svolgessero senza interferire?

Quando il lavoro volse al termine sentii la tensione crescere dentro di me. Avevo visto e sentito abbastanza. Rientrai nell’ufficio, il battito del mio cuore accelerato dall’adrenalina, e mi diressi verso la scrivania di John. L’aria era densa di aspettativa, come se ogni collega avesse percepito l’energia che circolava attorno a loro.

«John,» cominciai, la voce ferma ma contenuta. Le parole si formavano con fatica, ma sapevo di dover parlare. «So che c’è qualcosa tra te e Betty. E se non mi dici la verità, non esiterò a dirlo a tutti in ufficio.»

John sollevò lo sguardo, il volto impassibile. Un silenzio carico di tensione riempì l’aria. Sapevo di aver superato un limite, ma in quel momento, non mi importava. Ero stanca dei suoi atteggiamenti e dei giochi di potere. La partita era iniziata ed io non ero più disposta a rimanere a guardare.

«Cosa stai insinuando, Isabelle?» chiese John, il tono più freddo del solito.

«Non sto insinuando nulla. Ho sentito quello che stavate facendo. Non puoi più fingere ora.» La determinazione nella mia voce mi sorprese, ma era giunto il momento di farsi valere.

John si alzò dalla sedia, il viso teso. «Questo non ti riguarda. Non sei parte di questa discussione.»

«Sei il mio capo, e questo è il mio lavoro.» ribattei sicura, la frustrazione montante.

Un lampo di sorpresa attraversò gli occhi di John, ma fu solo un attimo. Tornò a controllare la sua espressione e mi resi conto che stava cercando di mantenere il controllo. La tensione era palpabile e, nonostante la paura, mi sentivo viva, finalmente al centro dell’azione.

«Quel che faccio non ti riguarda bambina,» disse finalmente John, ma la sua voce tradiva un’ombra di insicurezza. "E poi cosa c'è sei gelosa che tutte le mie attenzioni non sono rivolte a te? Mh?" Disse nuovamente sfiorandomi il mento con l'indice.

"Si può sapere se il tuo ego ha mai una fine!?" Sbottai furiosa "non mi importa di te, voglio solo che la smetti con questi stupidi giochetti."

«Sei sicura di quello che stai dicendo?» chiese John, il suo sguardo diventando penetrante.

«Sì,» rispose Isabelle, senza esitazione. «Non voglio essere coinvolta nel tuo mondo malato. Se non sei disposto a smettere, farò in modo che tutti sappiano quello che ho sentito.»

La tensione tra di noi era palpabile, mi sentivo rinvigorita. Era come se avessi finalmente preso in mano la mia vita professionale, rifiutando di rimanere nell’ombra. La decisione era presa e, qualunque fosse stata la risposta di John, non mi sarei tirata indietro.

«Non ti consiglio di procedere in questo modo, Isabelle. Potresti pentirtene» avvertì John, il suo tono serio.

John si voltò, fissando il computer, come se stesse cercando di trovare le parole giuste. Colsi l’occasione per uscire dall’ufficio, lasciando la tensione nell’aria. Mentre tornavo alla scrivania, il cuore mi batteva forte. Sapevo di aver fatto la cosa giusta, ma ora la palla era nelle mani di John.

Il resto della giornata passò in un turbinio di emozioni. Mi sentivo sollevata, ma al contempo ansiosa per le conseguenze delle sue parole. Non sapevo come John avrebbe reagito, e il pensiero di dover affrontare una possibile rappresaglia mi preoccupava. La sensazione di aver finalmente espresso le mie opinioni era contrapposta a quella di un clima di tensione che permeava l’ufficio.

Quando la giornata giunse al termine, mi sedetti alla mia scrivania e ripensai a quanto accaduto. Non era solo un lavoro; era una questione di dignità. John non poteva continuare a trattarmi come un pezzo di arredamento. Doveva rispettarmi come professionista, qualunque fosse stato il prezzo da pagare.

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