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Quelle mura grigie sono sempre state la mia casa.
In loro rivedevo il me bambino, abbandonato in una culla davanti al portone dell'orfanotrofio. Non so molto sui miei genitori, l'unica cosa che mi è stata concessa di sapere è che mi hanno lasciato una lettera dove, in poche righe, spiegavano che non potevano tenermi a causa di problemi economici.
Non so cosa significhi avere un padre o una madre nella vita, e onestamente non mi interessa. L'occasione io l'ho avuta, è solo stata sprecata contro la mia volontà.
Della mia permanenza di dieci anni lì dentro, ricordo le giornate scure di quando il mio posto sicuro veniva occupato da facce che mai avevo visto prima. Le educatrici lo chiamavano "il giorno dell'adozione".
Tutti erano felici, e facevano qualsiasi cosa pur di essere scelti. Indossavano il loro vestito migliore, e con l'aiuto di Miss Eleonor si assicuravano di non avere un capello fuori posto.
A differenza degli altri, io facevo l'esatto contrario. Portavo abiti ingialliti e consumati dal tempo, restavo in silenzio e mi coprivo la faccia con i capelli lunghi e biondi. Io non volevo essere scelto, non volevo andare via da quel posto magico.
Per questo mi consideravano strano, ma nessuno sapeva come ero cambiato vivendo nell'orfanotrofio. Cosa mi avesse radicalmente cambiato.
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Dentro lì, all'apparenza un posto buio e triste in grado di risucchiare tutto ciò che un essere umano è degno di provare, scoprii l'incanto della musica, il modo in cui puoi lasciarti trasportare in un altro mondo solo con pochi tasti, con pochi suoni che messi insieme formano una dolce melodia.
Alla tenera età di sei anni Miss Isabel mi mise fra le braccia una chitarra, e mi insegnò le prime note. Da lì nacque una passione sfrenata per il mondo della musica.
Nelle mie giornate storte amavo rinchiudermi in camera, lontano da tutto e tutti, per poi far fuoriuscire le emozioni represse da troppo tempo, suonando ripetutamente quelle corde usurate dagli anni che possedevano, usurate da tutti i plettri che le avevano fatte tremare e vibrare.
La chitarra è stato ciò che non mi ha mai lasciato, ciò che sapevo che sarebbe rimasta lì, ad aspettarmi. La chitarra è stata la via d'uscita dal tunnel buio che era la mia vita.
Una vita che si ripeteva uguale ogni giorno, la cui monotonia veniva spezzata solo e unicamente dalle ore passate a buttare giù su un foglio di carta, parole e note destinate ad unirsi.
Per quanto sapessi che il mondo era stato crudele con me, mi accontentavo. Nel mio piccolo ero felice, l'essenziale di ciò di cui avevo bisogno non mi mancava.
Tutti gli sforzi che avevo fatto per non farmi portar via furono, però, vani.
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La fragile gabbia di cristallo dove vivevo si aprì quando, un signore con i capelli neri e scuri come la pece, decise di adottarmi, rimanendo colpito dal mio silenzio, dal non voler parlare con nessuno.
Ma non perché non mi piacessero gli altri bambini, ma perché, crescendo, mi resi conto che nemmeno loro riuscivano a capirmi, a comprendere i mostri che mi stringevano le viscere nel cuore della notte, i diavoli che mi seguivano come un' ombra visibile nel buio.
E, guarda caso, io ero proprio quello che quel signore stava cercando: un bambino silenzioso, che non si lamentasse, che ubbidisse senza sbuffi, occhi al cielo o risposte maleducate.
La persona che mi offrì l'illusione di un futuro migliore, in cui io ovviamente caddi, era solo un manipolatore bugiardo, alla disperata ricerca di qualcuno che portasse avanti l'azienda della sua catena di hotel.
Negli anni mi ha costretto a iniziare il suo stesso percorso di studi, con gli insegnanti privati più formati dello stato.
Ma non era quello il mio sogno, no. Il mio sogno era quello di diventare un grande musicista.
Le potenzialità ce le avevo, sarebbero bastati degli sforzi in più e sarei potuto diventare un artista di grande successo.
Tutto ciò fu mandato in frantumi quando, in un pomeriggio come tanti altri, lui entrò nella mia stanza, spalancando violentemente la porta, prese la chitarra e, come un pazzo, iniziò a sbatterla ripetutamente contro il muro, rompendo la cassa acustica in mille pezzi.
Quella stessa sera bruciò tutti i fogli con le canzoni che avevo scritto.
Distrusse il mio lavoro di una vita intera. Distrusse me e il mio modo di essere, la mia prospettiva di vita per il futuro, distrusse tutto.
E io lo odio per questo.
Lo odio perché ancora oggi sono prigioniero della gabbia di bugie e manipolazioni in cui mi ha fatto entrare.
La verità è che ho paura, paura di quello che possa farmi. Vorrei scappare, ma non posso. Vorrei gridare, ma sono senza voce. Vorrei ribellarmi, ma non ne ho le forze.
Quindi mi sono arreso, forse la decisione più stupida e al contempo più intelligente che potessi mai prendere, e rimarrò qui.
Rimarrò imprigionato in una vita che ha sempre voluto il peggio per me, che non mi ha mai voluto bene.
Ma forse, alla fine, ho solo sbagliato io.
Prendere quello strumento in mano è stato un dannato errore.
Da lì compresi che ogni rosa può donare gioia e versare sangue in egual misura.
Il pericolo non riduce il fascino, lo accresce. Lo accresce talmente tanto fino a farlo diventare qualcosa di più grande, lo fa diventare un sogno. E i sogni non sono dominio esclusivo della mente, perché con la speranza ognuna di quelle fantasie può diventare realtà.
Togliere la speranza ad una persona equivale a toglierle la vita.
In fondo, tutti noi abbiamo bisogno di poter realizzare l'impossibile.
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Racconti brevi
Genel KurguUn racconto ogni tanto, da leggere in massimo dieci minuti, giusto per spezzare il tempo quando si ha voglia di addentrarsi in qualcosa di leggero e non troppo impegnativo :)