giocare sporco

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È trascorsa una settimana dall'ultima volta che io e Jason abbiamo scambiato una parola. Una settimana intera di silenzio, di sguardi fugaci e di distanze che sembravano invalicabili. La punizione del preside era finalmente finita: avevo passato giorni a pulire il campus, raccogliendo cartacce, lavando i corridoi e subendo i commenti di chi si divertiva a vedermi in quella situazione. Non mi importava, però. Ciò che pesava di più era il pensiero di lui.

Jason, nel frattempo, non aveva più potuto surfare. La sua tavola era distrutta, e anche se non parlava, il modo in cui camminava sulla spiaggia, con le mani infilate nelle tasche e lo sguardo perso verso l'orizzonte, diceva tutto. L'avevo visto diverse volte, seduto sulla sabbia o vicino alla rastrelliera vuota, come se aspettasse qualcosa che non arrivava mai.

Non ci eravamo mai parlati in quei momenti. Nemmeno un cenno. Io lo vedevo da lontano, e lui, se mi notava, non lo dava a vedere. Era come se fossimo rimasti bloccati in un limbo, un equilibrio fragile fatto di silenzi e tensioni non risolte.

Ricordo un pomeriggio in particolare. Il sole era quasi al tramonto, tingendo il cielo di arancione e rosso, e io stavo tornando al campus dopo aver finito l'ennesima sessione di pulizia. L'ho visto seduto su una vecchia panca di legno, con un blocco note in mano. Sembrava disegnare o scrivere qualcosa, ma non ho avuto il coraggio di avvicinarmi. Mi sono fermata a una distanza sicura, il cuore che batteva forte senza un motivo apparente.

Volevo parlargli. Chiedergli se fosse ancora arrabbiato, se avesse trovato un modo per sfogare quella rabbia che sembrava bruciarlo da dentro. Ma poi, ogni volta, il mio orgoglio mi tratteneva. Avevo paura di come avrebbe reagito, di quello che avrei potuto leggere nei suoi occhi.

E così, per una settimana, ci siamo ignorati. O meglio, ci siamo evitati con la scusa di non voler alimentare ulteriori tensioni. Ma la verità era che ogni silenzio, ogni momento passato senza una parola, non faceva che aumentare il peso di tutto quello che ci tenevamo dentro.

Oltre al caos al campus, sono riuscita a sentire i miei amici e ho raccontato della mia vita movimentata qui al campus, e per un po', il solo sentirli mi ha riportato a casa. Mi hanno dato buone notizie: Zola, sta finalmente bene, l'immagine di lei che corre libera nei pascoli mi ha fatto sorridere.

E poi, una notizia che mai avrei immaginato di ricevere: Goyard si è ritirato dalla caccia ai mustang. Non so cosa gli sia passato per la testa, ma non posso fare a meno di essere felice. Forse anche lui ha capito che non si può continuare a combattere contro la natura senza distruggere qualcosa di prezioso, dentro e fuori.

Sembra che, piano piano, le cose stiano davvero prendendo la piega giusta. Piccoli passi, certo, ma comunque passi avanti.

Eppure, nonostante queste buone notizie, ci sono ancora due problemi che non riesco a scrollarmi di dosso, due nodi che sembrano stringersi sempre di più.

Il primo sono gli incubi. Ogni notte, quando chiudo gli occhi, torno lì: in quei sogni che non sono altro che frammenti spezzati di paure e ricordi. Mi sveglio sudata, con il cuore che batte forte, senza riuscire a capire se quello che ho visto fosse reale o solo il prodotto della mia mente stanca. È come se qualcosa dentro di me non volesse lasciarmi andare, come se stessi correndo in un cerchio senza fine.

E poi c'è Jason Jlenk. Lui è l'altro problema, l'altra presenza costante che non riesco a ignorare. Questa guerra tra noi sembra non avere tregua, non avere soluzione. È una battaglia silenziosa fatta di sguardi mancati, tensioni palpabili e una distanza che si riempie solo di rabbia.

A volte mi chiedo se tutto questo finirà mai. Se un giorno riusciremo a trovare un equilibrio, o se questa tensione ci consumerà entrambi. Ma per ora, l'unica certezza che ho è che, tra gli incubi e Jason, la mia mente non trova pace.

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