Capitolo 13.

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 Andare a scuola non mi era mai sembrato tanto meraviglioso.

Una volta sedutami al banco tirai finalmente un sospiro di sollievo, sapendo di essere al sicuro dalla follia che aleggiava di fuori, e posai per un istante lo sguardo sul piccolo cerchio dorato che il Germe mi aveva costretto ad infilare al dito qualche secondo prima di uscire di casa.

Non appena l'avevo visto avevo sparato tutte le scuse possibili pur di non indossarlo, ma, anziché raggiungere il mio obiettivo, avevo solo che ottenuto il privilegio di vedermi l'anello incastrato all'indice piuttosto che all'anulare, quando ormai era troppo tardi per tentare di levarlo o lanciare improperi. Il Germe, infatti, se ne era subito lavato le mani dicendo «Eri tu a non volerlo mettere sull'anulare. Ben ti sta», sogghignando divertito.

Quanto avrei voluto ucciderlo.

In quel modo (e cioè fingendo di esserci fidanzati) gli altri membri della famiglia avrebbero avuto la conferma della versione dei fatti raccontatagli e ci avrebbero lasciati in pace per il momento, a suo dire.

Il problema principale era che anche nella realtà saremo stati eccome fidanzati, se non fossi riuscita a liberarmi di lui entro una settimana.

«Questo pomeriggio discuteremo meglio del tuo potere» aveva detto mentre ero sulla soglia di casa. Io mi ero limitata ad ignorarlo, sbattendo la porta alle mie spalle.

Mr. Newman, il prof di fisica, aveva iniziato a spiegare la legge di gravitazione, la velocità ed il periodo orbitale di un corpo nello spazio e così via. Nel bel mezzo della spiegazione, però, il caro e vecchio Newman aveva iniziato a divagare, citando una quantità infinita di termini specifici del settore con autentica passione nel tono della voce. Stranamente riuscii a captare qualcosa di quei discorsi strampalati e trovarlo addirittura interessante: a quel che avevo capito (e che, forse, era una pura invenzione della mia fantasia, data l'ambiguità del nome) gli scienziati moderni attualmente studiavano vari aspetti dello spazio, tra cui i cosiddetti wormhole (letteralmente: buco di verme), una specie di scorciatoie spazio-temporali per attraversare l'universo da un punto all'altro.

E pensare che di solito trovavo le sue lezioni una palla assurda. Dovevo avere la febbre o simile.

Al termine delle lezioni, quando il signor Peterson, l'inserviente, ebbe suonato la campanella, decisi di fare un salto in biblioteca prima di tornare al rifugio di fortuna del Germe, dove mi sarebbe spettata senza dubbio una lunga discussione.

La biblioteca era uno dei luoghi più tranquilli della scuola, non essendo molto frequentata. Raggiunsi un lungo tavolo vuoto sulla sinistra dell'aula, circondato da una dozzina di sedie di legno e mi sedetti di fronte alla finestra, dopo aver preso dalla libreria alle mie spalle un piccolo volume riassuntivo della letteratura inglese. Più che leggere (i libri che prendevo, infatti, mi servivano solo per sembrare impegnata) preferivo di gran lunga osservare il paesaggio fuori dall'istituto e le sfumature di colore che il cielo assumeva con il passare delle ore, perdendomi nei miei pensieri mentre ascoltavo la musica con gli auricolari dal cellulare. Aprii quindi il libro, ma, prima che potessi isolarmi dal mondo esterno, fui interrotta da una voce sconosciuta alle mie spalle.

«Posso sedermi?» aveva chiesto un ragazzo. Mi voltai per identificare chi avesse pronunciato quelle parole.

Dietro di me stava in piedi uno studente che non avevo mai visto prima, o meglio, che non avevo mai visto prima a scuola.

Era un ragazzo abbastanza alto, dai capelli corti e biondi, tendenti al platino, ma evidentemente tinto, a giudicare dalle sopracciglia nere al di sopra degli occhi blu intenso. Lo strano contrasto cromatico che la frangia laterale creava con le sopracciglia, ricadendo sugli occhi altrettanto appariscenti, avrebbe dato facilmente l'impressione che fosse un tipo strano e decisamente eccentrico. La sua uniforme, invece, rivelava un certo ordine, essendo indossata in modo praticamente perfetto (giacca compresa, benché spesso i ragazzi fossero soliti tenersela in spalla per sembrare più fighi anche d'inverno, quando faceva un freddo boia), fatta eccezione per la cravatta a strisce grandi rosse e blu più piccole della divisa, che non aveva.

Era il ragazzo dell'auto.

Quello che avevo creduto essere un'allucinazione dovuta alla stanchezza e all'ansia dell'essere inseguita.

Quello dagli occhi eterocromi che dal blu oceano sfumavano al rosso fuoco verso le pupille. Quegli occhi che mi fissavano da sotto il cappuccio e che mi avevano fatto rabbrividire.

«Prego..» risposi, cercando di sembrare il più naturale possibile.

Lui si sedette immediatamente accanto a me, alla mia destra, nonostante avesse avuto a disposizione qualsiasi altro posto attorno al lungo tavolo. Posai nuovamente gli occhi sul libro, ma, ancora una volta, non feci a tempo ad avviare la musica che la testa iniziò improvvisamente a pulsarmi, come se avessi avuto un martello pneumatico puntato nelle tempie. Corrugai la fronte per il dolore e mi massaggiai lentamente le zone in cui lo sentivo più forte, tenendo la testa tra le mani per qualche istante.

Probabilmente il male che mi aveva assalito era dovuto al tentativo di rintracciare l'immagine di quella persona tra i mille ricordi della mia vita: capitava sempre così quando dovevo rievocare qualcosa analizzando anche le memorie del mio passato e, di tanto in tanto, mi succedeva anche per ricordare le cose più recenti.

Chi era quel tipo? Che l'avessi visto di sfuggita a scuola qualche volta e, nell'eccesso di stanchezza della fuga, l'avessi reso la proiezione delle mie ansie, materializzando la sua immagine nel retro della macchina la sera prima? Non riuscivo a capire, sebbene ritenessi di avere una buona memoria fotografica, dato che nei miei due secoli di vita fino a quel momento non avevo mai dimenticato praticamente nulla.

Il mal di testa, intanto, sembrava aumentare sempre più di intensità rispetto al solito, quasi al punto che avrei voluto mordermi a sangue la lingua pur di non sentire più quel dolore insopportabile. Avrei voluto urlare.

Fortuna che ero in biblioteca e con un'altra persona accanto. Proprio il momento ideale.

Socchiusi gli occhi e cercai di ignorare il male provando a convincermi che, distraendomi, sarebbe passato, presto o tardi.

Ad un tratto percepii uno strano calore.

«Ehi, tutto bene?».

Il ragazzo aveva posato il palmo della sua mano sulla mia schiena e mi stava fissando con espressione interrogativa e un po' preoccupata insieme.

«Solo un po' di mal di testa. Non è niente» dissi frettolosamente.

Allo stesso tempo, con mia sorpresa, percepii il dolore attenuarsi sempre più, fino a che non scomparve del tutto.

«Ok» aveva detto dopo lui, ritraendo il palmo e posandolo sul libro di testo che aveva davanti. Lo guardai con la coda dell'occhio, ancora perplessa.

"Basta".

Ero stanca di pensare anche quando non volevo.

Raccolsi le mie cose e mi avviai alla porta. Quando l'ebbi raggiunta, decisi di dare un'ultima occhiata al profilo del misterioso studente, così da assicurarmi che non l'avrei dimenticato stavolta, come probabilmente mi era capitato invece in passato (pur se stentavo ancora a convincermene).

La sua sedia, però, era vuota.

Restava solo il vento, che sfogliava rumorosamente le pagine del suo libro, rimasto aperto sul tavolo.

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