Capitolo 20.

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Tastai istintivamente la schiena in corrispondenza delle scapole: nessuna spirale. Se eravamo davvero noi gli adimensionali, perché non era ancora comparso il simbolo indicato dalle cronache? Nel libro si era manifestato dopo un semplice contatto tra i due. Da un punto di vista teorico, allora, la spirale si sarebbe dovuta incidere nel momento in cui, il giorno precedente, il ragazzo mi aveva misteriosamente rasserenata semplicemente ponendo una mano sulla mia schiena.

Per quanto la storia sembrasse incoerente, la citazione del "resonare mentium" di cui mi aveva parlato il Germe conferiva una certa verosimiglianza al tutto, impedendomi di decretarne la totale assurdità, così come anche il termine "impuro", benché usato secondo un'accezione diversa da quella negativa attribuitagli dai miei parenti.

D'altra parte, però, com'era possibile che una plasmatrice come me fosse venuta a conoscenza dell'esistenza dei distorsori se l'Assoluzione aveva fatto sì che ciascuna parte non avrebbe mai ricordato l'esistenza dell'altra? Per non parlare del caso "Eustinia". Il nome del capostipite dei plasmatori temporali che per anni ed anni avevo sentito pronunciare con ossequio era sempre stato quello di Hector Schumann, non una certa "Eustinia".

«Come no.. » dissi quindi, chiudendo il libretto nero e schiaffandolo sul petto di Robin Long con scetticismo.

Non mi sarei lasciata turbare tanto facilmente da una qualche profezia.

In poco più di un giorno il mio mondo era cambiato radicalmente, da pecora nera a leader dell'ordine universale: ogni dettaglio che si aggiungeva al caotico puzzle in cui mi ero imbattuta sembrava sempre più astratto e fuori posto.

Prima di accettare una qualsiasi spiegazione, avrei dovuto corroborarla. Se c'era una verità, l'avrei ricercata da me.

Spalancai la porta del capanno e mi proiettai in avanti a passo deciso, sperando di ritrovarmi in qualche angolo freddo e misterioso della Meredith Highschool.

Contrariamente ad ogni mia aspettativa, inciampai ed affondai in una valanga di neve fresca, che arrivò rapidamente a lambirmi i fianchi, infiltrandosi sotto la gonna dell'uniforme e bagnando di gocce gelide la mia camicia. Intanto, una bufera di neve si abbatteva con violenza sui rami degli abeti circostanti, offuscando il paesaggio. Fui scossa da un brivido e, seppur confusa, tentai istintivamente di arretrare, finendo, per contro, ancora più immersa nella poltiglia biancastra, che arrivava ora sino al petto.

Prima che potessi accorgermene Robin si avvicinò al teatrino pietoso che avevo involontariamente messo in atto e, afferrandomi al di sotto delle ascelle, mi sollevò con un gesto deciso, facendomi atterrare sulle assi di legno del capanno e richiudendo a forza la vecchia porta di legno.

Incrociai le braccia e mi accovacciai sul posto, nel vano tentativo di raccogliere il poco calore rimastomi in corpo e di metabolizzare quanto avevo appena visto. Assicurata la porta, il ragazzo pose la giacca della sua uniforme sulle mie spalle con premura inaspettata, per poi inginocchiarsi di fronte a me e scrutarmi attraverso i suoi occhi blu.

«So che è difficile crederci, ma quello che hai appena visto è la prova che non ti ho mentito. Io sono un distorsore spaziale: posso andare ovunque voglia in qualsiasi momento. Ora ci troviamo sulle Alpi svizzere» disse, con aria incredibilmente seria. «Essendo entrambi adimensionali, ho potuto viaggiare con te attraverso lo spazio, così come tu potresti preservarmi da una qualsiasi bolla temporale tu crei. L'equilibrio fondato dall'Assoluzione è stato alterato e solo noi possiamo porvi rimedio. Se non lo facciamo, dì pure addio a questo mondo» concluse.

Lo fissai a lungo, incapace di proferire parola attraverso le labbra ancora tremanti. Benché non lo conoscessi, percepivo di potermi fidare di lui, forse per via della determinazione nel suo sguardo o per la convinzione delle sue parole concise, ma serie.

Annuii, mettendo da parte la riluttanza iniziale che mi tratteneva. In ogni caso, che mi ispirasse fiducia o meno non aveva importanza: l'unica cosa che contava era tenerlo dalla mia parte fino a quando non fossi tornata al sicuro, tra le pareti dell'istituto.

Le labbra rosate del ragazzo si schiusero in un lieve sorriso.

Poi prese il mio zaino, mi aiutò ad alzarmi in piedi offrendomi il palmo destro come appoggio e, cingendomi nuovamente il fianco con il braccio sinistro, mi strinse a sé con estrema delicatezza, come timoroso che potessi spezzarmi da un momento all'altro.

Il mio petto si ritrovò nuovamente a sfiorare il suo e, poco prima di attraversare lo spazio, Robin avvicinò la testa al mio orecchio destro.

«Grazie» mormorò.

Il breve istante che precedette la nostra scomparsa dal capanno sembrò durare minuti e minuti di imbarazzante silenzio. Non riuscivo a distinguere se si trattasse unicamente di una mia impressione o se il ragazzo avesse atteso volutamente più a lungo prima di trasportarci, se avessi dovuto rispondere in qualche modo al suo ringraziamento o meno. Quel calore improvviso mi aveva dato uno strano senso di nausea: non ero abituata agli abbracci, né alla gentilezza.

Non appena ricomparimmo dietro l'albero del cortile sud mi scostai in fretta e ripresi il mio zaino, restituendogli la giacca. Robin non sorrideva più, ma aveva assunto un aspetto composto, continuando ad osservarmi mentre sistemavo le ciocche di capelli bagnati che mi si erano incollate al viso.

Con rinnovata risolutezza, decisi di affrontare l'intera situazione ed evitare di rimandare le spiegazioni: prima del termine delle lezioni avrei scoperto tutto quello che dovevo sapere riguardo agli adimensionali e le nostre famiglie. Mentre riordinavo le varie domande nella mente, a disagio per la pressione dello sguardo del ragazzo, sentii un rumore di passi avvicinarsi.

«Tana» cinguettò una voce familiare alla mia destra.

Ci voltammo entrambi di scatto, colti di sorpresa: Shin.

L'asiatico sfoggiò uno dei suoi ghigni e scomparve subito dopo in una nube di polvere.

Deglutii e tornai a cercare sicurezza nello sguardo di Robin.

Aprii la bocca per chiedergli istruzioni su come agire e capire se l'asiatico fosse un "nemico" o meno, ma non feci in tempo: Shin si materializzò tra noi.

Mi guardò con la coda dell'occhio, quindi si voltò verso Robin e, dopo averlo afferrato per il colletto della camicia, lo trascinò con sé in una nube di polvere, dissolvendosi davanti ai miei occhi.

La campanella suonò la fine della pausa pranzo. Peccato che non coincidesse anche con la fine dei miei guai.

Tutto era solo che appena iniziato.


Nota dell'autrice

Le difficoltà dello scrivere senza seguire uno schema predefinito iniziano a farsi sentire, ma non amo le restrizioni e non mi lascerò scoraggiare! 

Buona lettura, 

EyeBlink.


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