Capitolo II

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Presente

Capelli neri, lunghi fino a metà schiena. Occhi verdi. Mi chiamo Alexia. Non so altro di me e non c'e' altro da sapere.
Siamo macchine da guerra addestrate a uccidere chiunque non segua le leggi del nostro Governo.
Sono un'assassina.
Un'assassina assetata di sangue e questo è tutto ciò che dovete sapere di me.

Mi guardo allo specchio del dormitorio, a quest'ora ormai vuoto, e non vedo niente.
Non so se esisto davvero.
Una macchina non è una persona, è un insieme di pezzi uniti tra loro per essere controllati, un qualcosa che non può ribellarsi da quel controllo perché è tutto ciò che ha, tutto ciò che la tiene in vita. Ecco cosa sono.
Ma tutto questo cambierà, fra tre giorni uscirò da qui e farò il test per entrare nell'esercito, nessuno mi comanderà mai più, se non io stessa.
Guardo l'orologio, sono le otto passate, dovrei già essere in sala di addestramento per allenarmi con Austin.
Esco dalla grande camerata e cammino per i corridoi scuri che sono stati la mia casa per nove anni. Non mi fermo a salutare o a fare cenni alle persone che conosco, questa gente non è mai stata niente per me, chi mi circonda non mi interessa, come nessuno, d'altronde.
Niente amore, le persone tradiscono. Questo è ciò che ci insegnano qui dentro, ci insegnano a non provare niente. Ad essere forti, non deboli come i Ribelli.
Entro nella sala assegnata ad Austin, dentro ci sono già tutti gli altri, precisamente siamo venti ragazzi, tra i dodici e i sedici anni.
<< Sei in ritardo.>> dice senza guardarmi.
<<Lo so.>> rispondo, non è che mi importi più di tanto.
Lui alza gli occhi al cielo come se non mi sopportasse più e, sinceramente, non posso dargli torto.<<Oggi sparate.>> mi informa sempre senza guardarmi. Sul tavolo in fondo alla sale sono allineate venti pistole, ne prendo una e mi metto davanti al mio bersaglio già ricoperto di buchi, me ne hanno dato uno nuovo ieri, ma l'ho già distrutto.
<<Via!>> urla quando siamo tutti pronti.
Divarico le gambe per ottenere un migliore equilibrio e allineo la canna della pistola con il mio occhio e il bersaglio.
Miro alla testa. Respiro. Sparo.
La pallottola colpisce perfettamente il punto che mentalmente avevo deciso. Alzo di nuovo la pistola e sparo, al cuore questa volta.
Credo che sparare sia una delle attività che mi piace di più, mi da' un senso di potenza, controllare qualcosa ti rende forte.
Continuo così, alternando tra il cuore alla testa, due punti mortali, che uccidono sul colpo.
Gli altri alcune volte sbagliano, io no. Non sono stata addestrata a sbagliare, nessuno di noi lo è stato. In battaglia sbagliare potrebbe significare perdere e questo non può' succedere. Se perdi muori. Sempre. E' come se fosse una regola non scritta.
<<Cosa succede, Alexia?>> la voce di Austin mi arriva bassa all'orecchio.
Sparo.<< Niente.>>
Si raddrizza guardando giù.<<Ti trema la gamba.>> mi fa notare.
La fermo di colpo come se, facendo cosi', potessi nascondere che fosse davvero successo.<< Non succede niente>> dico di nuovo ferma, cercando di essere il più convincente possibile.
<<Non mentire>>
Prendo la mira.<<Non lo sto facendo.>> quando mi mette così alle strette vorrei solo...forse sarebbe meglio non dirlo.
Mi abbassa di colpo il braccio. Sparo. La pallottola finisce nel pavimento a pochi millimetri dal mio piede. Fisso Austin socchiudendo gli occhi desiderando così tanto di avere la vista laser. Sono consapevole che tutti gli occhi in questo momento sono puntati su di me. Stanno aspettando di vedere cosa farò, quale sarà la mia prossima mossa e se Austin mi fermerà. Qui al Centro sono famosa per dare inizio a molte risse, non mi importa se insegnanti o ragazzi.
<<Si, invece>>.
<< Cosa t'importa?>> gli chiedo calma sorprendendo tutti, sorprendo anche me stessa.
Si passa una mano tra i capelli scuri e mi guarda come se fossi la ragazza più stupida che abbia mai visto.<< Voglio sapere cosa ti passa per la testa.>>
Porto il peso su una sola gamba, lo faccio sempre quando sono messa nell'angolo.<<Stavo sparando>> odio quando le persone dicono ciò che ovvio, compresa me stessa.
<<Sparavi male.>>
Aggrotto le sopracciglia.<< Ho colpito perfettamente.>>
Abbassa la voce affinché possa sentirlo solo io:<<Se una tra le migliori qui dentro, ci conosciamo da nove anni, so quando c'è qualcosa che non va.>>
Perché si sta comportando in modo gentile? Nessuno di loro lo fa mai, credo che non sappiano neanche cosa vuol dire.
Resto in silenzio guardandolo con aria di sfida, ma la sua pazienza non è illimitata.
<<Bene>> mi sfila la pistola di mano.
Un pensiero veloce mi attraversa la testa: mi vuole sparare?
Fortunatamente no. Tira la pistola quasi alla cieca, ma come per magia arriva sul tavolo producendo un rumore secco.<<Hai finito qui, quando mi dirai cosa succede sparerai di nuovo, ora vatti a fare un giro.>> Senza dire altro mi volta le spalle concentrandosi su tutti gli altri a parte me.
Dopo un attimo mi muovo masticando delle parolacce e sbattendo brusca la porta.
Non mi interessa, non mi interessa, mi ripeto come una cantilena. Non deve interessarmi, ma la verità è che tutto ciò mi da un fastidio tremendo. Perché devono decidere sempre gli altri? Cosa e chi gli dà questo diritto? Forse non se ne sono accorti, ma io ho un cervello funzionante, proprio come il loro. Ci trattano come se non fossimo esseri pensanti, come se non fossimo esattamente come loro, ci trattano come se non fossimo alla loro stessa altezza.
Vorrei dire tutte queste cose, ma non posso. Non possiamo opporci, se lo facessimo, diventeremmo Ribelli.
Forse voi non sapete chi sono i Ribelli, ma io si, oh se lo so.
Però è meglio cominciare dall'inizio.
Tempo prima, quasi quarant'anni fa ci fu la terza Guerra Mondiale.
La guerra, tra le tre, più micidiale. Le nuove invenzioni tecnologiche, scientifiche e atomiche permisero di distruggere gran parte della popolazione facendo sembrare il numero delle morti precedenti una sciocchezza. E sto parlando sul serio, morirono più o meno due miliardi di esseri umani, innocenti o meno a nessuno importava, a tutti e sei, prima erano chiamati continenti, importava solo di avere il potere, qualcosa di così forte da farti impazzire se non ce l'hai e distruggerti se lo ottieni.
Ognuno di questi continenti era diviso in tanti stati che volevano dominare il mondo e non si sarebbero fermati fino a quando non fosse successo, ma, ammettiamolo, il mondo non può essere controllato da più persone che lottano tra loro. Alla fine successe che tre anni dopo l'inizio della prima offensiva, i capi di Stato, di ogni Stato esistente, si incontrarono su territorio neutro e tutti insieme dichiararono una tregua di tre giorni. In quei tre giorni avrebbero dovuto prendere una decisione, se così non fosse stato la guerra sarebbe ripresa e finita solo quando non fosse rimasto un unico continente supremo e dominante.
I tre giorni erano passati lentamente, o almeno così raccontavano tutti. La gente viveva tra le macerie che una volta erano state la loro casa. Piangeva la morte dei loro cari caduti e attendava la fine o un nuovo inizio.
Così nella confusione arrivarono ad una conclusione: non sarebbero esistite più divisioni territoriali , se non di stati, ma solo per scopo organizzativo.
Ognuno di essi avrebbe avuto un Centro e una Base. Il governo sarebbe stato formato da 205 membri, di cui un governatore al quale tutti i capi avrebbero dovuto rivolgersi in caso di problemi o nuove leggi, una specie di capo supremo che tutti dovevano ascoltare e ubbidire.
Poi furono stilate nuove leggi tra cui la più importante: ogni bambino – poiché il loro cervello non è ancora sviluppato del tutto e facilmente manipolabile- all'età di otto anni, sarebbe stato prelevato per essere portato al Centro dove grandi insegnati avrebbero insegnato loro a combattere, gli avrebbero insegnato a non provare nulla, perché, come dicevano i Governatori, erano questi, i sentimenti, che scatenavano guerre mortali, erano le nostre emozioni a farci uccidere senza pietà. Erano le nostre emozioni a controllarci.
Naturalmente, non esiste Governo senza oppositori. Questi sono chiamati Ribelli, coloro che vogliono mantenere vivi i propri sentimenti, coloro che non accettano, ancora oggi, l'autorità del nuovo Governo, coloro che cercano di cambiare il mondo. Ma per loro sfortuna sono pochi.
Non so dove vivano, forse fuori dalle mura o forse è soltanto una storiella inventata per farci stare buoni. Comunque sia, ancora oggi, quarant'anni dopo, tutti i bambini vengono separati dai genitori e sottoposti a prove abbastanza mortali e brutali che gli permettono di non ricordare mai più cosa significhi volere bene o cosa significhi ridere davvero o perfino provare simpatia nei confronti di qualcuno. Non abbiamo amici, non abbiamo compagnia, noi siamo soli. Per sempre. Siamo addestrati ad essere spietati, siamo addestrati ad uccidere senza distinzioni, siamo addestrati ad uccidere senza paura né ripensamenti.
Forse è la nostra condanna.
Faccio spallucce, non importa.
Le gambe mi portano dove non dovrei andare.
Il Centro è diviso in trentuno aree molto grandi, ad ognuna di esse è assegnato un addestratore e altri insegnanti di minore importanza. La mia area è la numero Otto. Devo arrivare alla Cinque.
Esco fuori nell'aria ormai già calda e mi guardo intorno. Dall'esterno il Centro può sembrare solo una struttura alta, imponente e spaventosamente oscura, o almeno è quello che è sembrato a me la prima volta, ma in realtà quella è solo la facciata che vogliono mostrare, dietro di essa è solo una specie di campus, ogni area è disposta a molti metri di distanza l'una dall'altra e tutte insieme formano un cerchio, il cui interno è vuoto, ci sono solo alberi e erba. Un piccolo bosco o una foresta in miniatura.
Naturalmente i bambini non vengono assegnati alle loro aree in modo casuale, ma in base al giorno della loro nascita, io sono nata l'otto Maggio e quindi, insieme ai bambini e agli adolescenti nati nel mio stesso giorno, sono stata assegnata ad Austin.
Ogni area ha una propria mensa nella quale mangiamo tutti insieme solo ed esclusivamente negli orari prestabiliti; due sale di addestramento, una per i più piccoli, per i bambini dagli otto ai dodici anni, e una per noi più grandi; due dormitori con bagni compresi, già per quanto possa essere ridicolo visto che ci alleniamo tutti insieme, noi ragazze e i ragazzi dormiamo separati; un cinema che non usiamo quasi mai e, quando lo facciamo, è per guardare immagini di guerra o scene brutali tra noi e i Ribelli. Ed infine quella che mi piace di più: la sala simulazioni. E' una grande stanza dove una volta al mese ci dividiamo in due squadre, di cui una Ribelle, e da quel momento in poi dobbiamo comportarci come se fossimo davvero nella situazione in cui davanti a noi ci fossero degli anarchici, certo non usiamo proiettili veri, ma è comunque bello sapere di avere il controllo su qualcosa senza dover eseguire degli ordini. Ti rende importante, o almeno ti fa sentire tale. Anche se per poco tempo ti fa sentire libero di poter scegliere
Per me domani è l'ultima.
Cammino cercando di non far rumore, anche se in giro non c'è nessuno. Quello che sto per fare può costarmi la vita, ma sono abbastanza sicura che, se dovessero trovarmi, non mi ucciderebbero, qui dentro mi credono importante, una tra i migliori assassini di sempre. Non mi giustizierebbero per una sciocchezza simile e poi la morte non mi spaventa. Poche cose lo fanno.
Le parole di Austin mi risuonano in testa "niente paura, il terrore può uccidere".
Cerco di mantenermi il più possibile vicino alle strutture, di solito le telecamere riprendono il centro creato dalle aree. Dopo tutti questi anni ho imparato a non farmi notare quando faccio cose pericolose.
Le nostre due aree non sono molto lontane tra loro cosi' ci metto poco.
Dieci minuti dopo sto sbirciando dalle finestre oscurate. Nel dormitorio non c'e' nessuno a parte una figura stesa sul letto dai capelli luminosi come il sole e lo sguardo freddo come la neve d'inverno rivolto al soffitto.
Lei non è più la mia migliore amica.
Lei non è più Ashley.
Volta la testa di scatto come se si sentisse osservata, provo a nascondermi, ma ormai è troppo tardi, mi ha visto.
Mi lascio scivolare per terra con la schiena attaccata al muro fino a trovarmi seduta, pochi secondi dopo la porta si apre e lei è davanti a me, immobile come una statua.
Ogni anno guardo la sua vitalità sparire piano piano, ogni anno, il giorno del suo compleanno vengo a trovarla, ma non mi faccio mai vedere, mi basta sapere che sta bene.
Alzo lo guardo verso di lei e noto che mi sta scrutando, sa chi sono, ma allo stesso tempo non mi riconosce, come se fossi un'estranea che ha varcato il suo territorio. E potrei esserlo, dovrei esserlo.
Non sono e non sarò mai più la Lexie che conosceva.
<<Alexia.>> dice a mo' di saluto.<<Cosa fai qui?>>
La sua voce non è più la stessa, non c'e' più quel tono dolce, sembra quasi meccanica. E' vuota.
<<Oggi è il tuo ultimo giorno qui.>> le faccio notare.
<<Si, parto tra due ore, mi hanno esonerata.>>
I suoi occhi scattano a destra e a sinistra come per assicurarsi che nessuno ci stia guardando o ascoltando. In quei pochi secondi la osservo. Ha lasciato crescere i capelli, ora le arrivano alle spalle, gli occhi grigi sono gli stessi, ma non c'e' più quella luce che un tempo li rendeva vivi. Quella luce che mi piaceva guardare mentre giocavamo insieme, quella luce che ormai non tornerà mai più. Noto sorpresa che è diventata più alta di me, quando invece, da piccole era sempre stato il contrario.
<<Non dovresti essere nella mia area. Qualcuno potrebbe vederti. E punirci.>> aggiunge come se non avessi già compreso il senso delle sue parole.
Scrollo le spalle con indifferenza:<<Sono venuta a salutarti.>>
<<Okay.>>
Un silenzio carico di tensione riempie l'aria mentre nessuna delle due sa come continuare, poi, visto che lei non ha intenzione di dire niente, chiedo.<< Farai il test? Intendo dopo che uscirai di qui.>>
Mi lancia uno sguardo.<<Ovvio che lo farò.>>
Naturalmente, mi dico. Non farlo risulterebbe come un tradimento nei confronti del Governo, o paura per le prove che ci aspettano.
<<Forse ci incontreremo alla Base.>>
Mi guarda con sfida.<<Certo, se lo passi.>>
Cerco di nascondere un sorriso che non so neanche da dove arrivi, da piccole ci punzecchiavamo sempre in questo modo. Ma pensavo che non se lo ricordasse.
<<Sai>> inizia dopo un po'.<< ho sentito parlare di te, in questi anni.>>
<<Ah si?>> mi mostro sorpresa, ma in realtà lo so benissimo che qui dentro si parla di me a volte.
<<Dicono che tu sia una delle più brave,>> continua.<< ma anche una delle più difficili da educare.>>
Già, c'era quel piccolo dettaglio. Ero famosa per la mia dote di scatenare risse come se nulla fosse e di non ascoltare praticamente quasi mai.
<<Diciamo che qualche volta ho fatto a botte.>>
<<Con un addestratore.>> alza un sopracciglio come se si aspettasse una spiegazione valida.
Faccio roteare gli occhi.<<Mi aveva provocata.>>
<<Gli hai rotto un braccio.>> aggiunge come se non ne fossi al corrente.
Si, lo avevo fatto, ma per legittima difesa, quel viscido aveva iniziato a toccarmi. Risi senza alcun divertimento.<<Se lo meritava.>> risposi sulla difensiva:<<Ed è stato fortunato, se non fosse arrivato Austin gli avrei rotto qualcos'altro.>>
Scuote la testa e mi guarda freddamente.<<Dovresti stare attenta, Alexia, a volte il coraggio mette nei guai.>> poi torna dentro senza dire altro.
Buon compleanno,penso alzandomi e pulendo la tuta nera, stretta.
Lei non è più Ashley, ma solo una macchina priva di sentimenti.
E' ciò che loro vogliono che sia, è ciò che dovrei essere anche io, ciò che voglio essere.

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