Capitolo V: Oliver

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15 gennaio 2007

"ELEONORE! Ti ho detto di smetterla di giocare con quella stupida porta, finirai per chiudertici una mano dentro!
E io non ti aiuterò a tirarla fuori, cazzo!", strillò il padre alla piccoletta, che intanto non si curava di lui.
"Allora vediamo, sedici riporto due... moltiplicalo per quattro... anzi no per cinque, poi aggiungici seicento, togli ventisette... cazzo, ho perso il conto!"
Un imponente accordo a sei ottave tuonò nella villetta illuminata dal meraviglioso sole pomeridiano della California, in contemporanea allo strappo rabbiosamente effettuato da parte del padre sulla dichiarazione dei redditi, già bollata, firmata e controfirmata; stava per ritornare all'attacco dei figli degeneri che non gli lasciavano un minuto di pace, quando il telefono squillò.
"Pronto? Direttore, che sorpresa gradita! Come posso aiutarla? Ma certo direttore, penso che un aumento del reddito ai dirigenti dell'amministrazione farebbe loro piacere, direttore."
Un altro accordo, stavolta a dieci ottave, provenì dalla camera del figlio maggiorenne: musicista provetto di rock e metal, aveva trovato il modo di far suonare contemporaneamente quattordici chitarre elettriche, sette pianole (ognuna di esse impostata con un timbro diverso), otto sintetizzatori ed un organo, tutti collegati a svariate casse alte svariati metri che sputavano svariati decibel.
Il padre questo non riuscì ad ignorarlo, ma fu costretto a far finta che non fosse accaduto niente con il superiore all'altro capo del telefono.
"Come vuole lei, direttore. Ha sempre la risposta risposta tutto, direttore! Può attendere un momento in linea, direttore?
Grazie, Lei è sempre così magnanimo, direttore!"
Non serve che vi descriva la serie di smorfie e di improperi che il genitore lanciava mentre parlava come se niente fosse al suo capo.
"Meno male che non eravamo faccia a faccia, gli avrei sputato sul quel viso di merda...", mugugnò alterato l'uomo.
Il padre appese la cornetta al ricevitore, rimanendo per un attimo impigliato nel lungo filo e mandandolo amorevolmente a quel paese, quindi sbraitò contro il figlio più grande, al piano di sopra.
"RICK! SMETTILA DI SUONARE QUELLA DANNATISSIMA CHITARRA ELETTRICA, STO CERCANDO DI PARLARE CON IL CAPO E JAMES STA FINALMENTE DORMENDO, CONTRARIAMEMTE A ME, CHE HO PASSATO LA NOTTE IN BIANCO PER CAUSA DEI SUOI PIAGNISTEI!"
"Che sbatti di te!", gridò di rimando il pargolo maggiorenne.
Dalla culla vicino all'asse da stiro dove il padre - oltre a piegare i vestiti con il caldo ferro da stiro, parlare con il capo e cercare di tenere Eleonore lontana da un'accidentale amputazione della mano - stava inoltre compilando la dichiarazione dei redditi, un urlo sgraziato, straziante e voglioso di attenzione rimbombò in tutta la casa, facendo per un attimo cessare tutti gli altri rumori molesti.
Solo la nota acuta di quello strillo risuonò in tutta la casa, da porta a porta, da parete a parete, da colonna a colonna.
Erano stati oscurati tutti gli altri: il telefono squillava, lo si vedeva muoversi, ma l'audio era come stato rimosso; l'uomo infuriato sbraitava contro Eleonore, si vedeva la bocca spalancata in una smorfia contorta, ma sembrava che le sue corde vocali non producessero alcuna onda sonora ubidile dall'orecchio umano; il figlio suonava, si vedevano le casse vibrare velocementissimamente e violentemente, ma del suono nessuna traccia.
Quindi il bimbo iniziò a piangere, e i rumori fastidiosi ritornarono, con l'aggiunta dei potenti piagnistei di James, l'ultimo arrivato nella famiglia Bates.
Ragazzi, vi giuro che non immaginate il dannatissimo casino che c'era lì dentro!
Fortunatamente fra poco arriva la mia parte preferita, quella dell'hacker nascosto da svelare.
Ma torniamo a noi, non devo interferire con la storia.
Le urla del padre isterico contro i figli, seguite da un tono di voce melenso e fasullo per il capo che parlava con lui al telefono, del tutto sovrastati dall'assolo alla Jimmy Hendrix uscito dall'enorme cassa acustica a cui era collegata la chitarra di Rick e quindi dai potenti polmoni del piccoletto di casa, disturbarono il cane degli inquilini confinanti, che, dopo aver sfacciatamente superato l'alto steccato che segnava il confine fra il giardino del quadrupede e quello della famiglia Bates, ovviò ai suoi bisogni urinari sulla Jeep di questi ultimi, proprio sopra gli adorati sedili in pelle del Signor Bates.
Quindi, soddisfatto, se ne tornò nel suo appezzamento di terra, fece un giretto su sé stesso e quindi rientrò nella cuccia a dormire.
Dentro la casa, il padre continuava a sbraitare, ignaro del disastro scatenato dal "migliore amico dell'uomo".
"ELEONORE! Se non la smetti con quella cavolo di porta, giuro che la porto su di un burrone e la butto giù! E TU LA SEGUI A RUOTA!"
La tanto nominata Eleonore se ne continuò a fregare degli strilli lanciati dal padre, perseverando a giocare con la porta; il povero adulto intanto stava con una mano provando a stirare - con scarsi risultati - quintalate di vestiti, con l'altra cercando di cullare l'ultimo arrivato nella famiglia Bates, James, che stava piangendo a dirotto, mentre fra la spalla e l'orecchio destro teneva il telefono, dialogando con il capo di una sua eventuale promozione, mentre cercava di ricalcolare a mente per l'ennesima volta le spese annuali della famiglia.
"OLLY! Vieni al piano di sotto e fai smettere di piangere tuo fratello!" gridò il genitore schizzato per sovrastare il pianto del piccoletto, mentre copriva il ricevitore per evitare di essere licenziato in tronco.
"Ma papà, sono al computer!", rispose una voce ancora giovane dal piano di sopra.
"Non mi interessa quel cazzo che stai facendo là sopra, vieni giù in questo istante o ti brucio il router!"
Una corsa rocambolesca giù per le scale della casa preannunciò l'ingresso di Oliver, che afferrò scocciatamente il fratello; quindi iniziò a dargli dei leggeri colpetti sulla schiena.
"Quanto vorrei essere Edward Mani Di Forbice in questo momento...", pensò Oliver, in un raptus di rabbia omicida verso il fratellino innocente.
"Non guardarlo come se lo volessi squartare, Olly!", esclamò il padre dalla cucina.
"E tu smettila di portare a casa figli di cui nemmeno si conosce la madre come se fossero conigli da vendere al macello!", gli disse di rimando il piccolo ragazzino.
"Oliver Asahi Augustus Bates! Come ti permetti?!", tuonò più infuriato del solito il padre.
Fulmineo, volò verso il salotto, dove Oliver stava cercando di cullare il bambino.
Una voce femminile e bambina piagnucolò un doloroso e lacrimoso "Babbo! Babbo! Babbo!", e la sua proprietaria corse verso l'esponente più anziano del gruppetto di schizzati, tenendosi la mano destra, rossa e gonfia.
Il padre abbassò pian piano la mano alzata verso la guancia di Oliver, distratto dal dolore della piccola.
Olly ne approfittò per squagliarsela, lanciando sul divano ricolmo di pacchetti di cibo per asporto vuoti il piccolo James, che rimbalzò un paio di volte, divertito dalla morbidezza del pezzo di arredamento fradicio di ogni odore, macchia, colore e sapore; tirando il pacco al padre ed al neonato si rifugiò nella sua camera, mentre al piano di sotto il genitore sbraitava su quanto Eleonore fosse stupida ed inutile e su quante volte le avesse detto di star lontana dalla porta.
Quindi, ricapitolando, Oliver viveva in una famiglia in cui: il padre era leggermente matto da legare, il figlio minore era un cantante lirico da Flauto Magico eseguito a testa in giù immerso in una botte piena d'acqua, il figlio maggiore era un terrorista dei timpani altrui e l'unica figlia femmina era un'aspirante autolesionista.
Ottimo.
Ma questo è solo il mio giudizio, e poi tu sai che tendo a divagare.
Comunque, ritornando al nostro Oliver dodicenne, era appena entrato nel suo quartier generale, dal quale poco tempo prima era stato contattato da un misterioso utente, che diceva di osservarlo da molto tempo, e che, viste le sue notevoli qualità, gli offriva un lavoro di Hacking a livelli internazionali.
Ovviamente lui aveva accettato, ma il tizio esigeva delle prove: stava per iniziare il suo test quando il padre lo aveva chiamato.
Scosse la testa, quasi dimenticandosi di ciò che doveva fare, ed osservò la sua camera: nonostante la sua età decisamente inusuale per un hacker che vìola come e quando gli pare i cellulari dei suoi compagni, ancora senza il sistema "touch screen" da lui stesso inventato, brevettato e sotto contratto con la Samsung, la sua stanza era un centro di organizzazione di tutto rispetto. Ecco in un'angolo il letto, rigorosamente rifatto e piegato a puntino: non una singola piega o deformità di alcun tipo osava intraprendere il temerario viaggio di certo mortale sul campo spianato del luogo di riposo di Oliver e rovinare la sua pura linearità; all'angolo opposto si trovavano la libreria e la videoteca, con i tomi sistemati in ordine alfabetico, meticolosamente ricopertinati da sottili pellicole trasparenti anti-polvere, ed i Dvd di film crackati sottostanti posti in un perfetto ordine di uscita, preciso non solo fino all'anno di rilascio, ma anche il mese, il giorno e perfino il minuto; alla pareti erano appesi diversi quadri ritraenti l'Inghilterra e le sue colline verdeggianti, perfettamente paralleli al pavimento ricorperto di un sobrio parquet marrone; sopra una sedia girevole, del tipo "ufficio", un'ampia scrivania, con fogli, penne, computer, mouse, tower e server esattamente (e forse anche maniacalmente) allineati gli uni agli altri.
Niente in quella stanza era fuori posto, se non Oliver in sé: dentro a quell'assurdo mare di sconfinata precisione e minuziosità da lui stesso creato, l'unico che non era stato riordinato era proprio il giovane; ciò avrebbe fatto sentire a disagio chiunque, ciascun essere normale avrebbe iniziato a dare di matto all'interno di quell'irreale sistemazione, calciando, spostando, rompendo e mettendo in disordine ogni cosa che capitasse sotto mano.
Ma Oliver non era quel tipo di persona: al contrario, osservare tutta l'intera stanza uniformata, in un mondo dove poteva aver accesso ovunque, dove sapeva esattamente in quale dei suoi cassetti si trovassero, ad esempio, i suoi vestiti, o i suoi progetti, o i suoi giocattoli, dove si ritrovava, lo faceva sentire bene, felice dentro di sé.
Sembrava quasi un estraneo in quella famiglia di pazzi: il soggiorno, come il resto della casa, si era trasformato in un campo di battaglia, con vestiti, resti di cibo, biberon e ogni tipo di oggetto umanamente concebile sparsi in ogni dove.
Forse la filosofia della sua famiglia era qualcosa simile a "Se non è ancorato alle pareti allora dobbiamo buttarlo per terra almeno una volta nella vita.", ma ad Oliver piaceva stare con loro, si divertiva molto!
Come quella volta in cui il padre alzando la cornetta e pensando che qualcuno le facesse uno scherzo telefonico aveva mandato all'aria un contratto di lavoro importantissimo, insultando il fondatore di una gigantesca multinazionale!
Tutti insieme avevano riso, felicemente e senza pensieri.
O ancora quando il fratello era stato ammesso ad una facoltà universitaria a cui non si era nemmeno iscritto: poco dopo si scoprì che lo avevano scambiato per uno studente di Harvard di nome Xerxos Meris... e anche lì, giù di risate, tutti insieme.
Già, tutti insieme.
Non avevano riso quando la madre era dovuta partire per un lungo viaggio... un viaggio da cui era quasi certo che non facesse ritorno.
La sua ultima tappa nota fu, dopo molte fermate all'ospedale nei reparti più tristi dei tumori più incurabili, alla Chiesa principale della città di Los Angeles, la sua città, dove nacque, visse, e morì.
Era il giorno finale di un viaggio con esito già scritto, un giorno molto triste per tutti.
Il 15 gennaio 2002.
Erano esattamente 5 anni che sua madre era partita per un lunghissimo viaggio verso mete ignote, alte e inconcepibili per la mente umana, specialmente per quella di un piccoletto venuto al mondo da soli 7 miseri anni.
La consapevolezza di ciò aggredì Oliver, tenero ed indifeso, e, aiutata da disperazione, rabbia, paura, incredulità e rimorsi, lo fece crollare in ginocchio in un pianto struggente e tristemente veritiero.
"Perché mamma, perché mi hai lasciato così?!", ripeteva straziata la sua voce rotta dai singhiozzi e dai respiri affannati del pianto, mentre intorno a sé quell'ordine non aveva più i contorni seri e "quadrati" di sempre: offuscati dai litri di lacrime amare come solo l'acido può essere, non assumevano più senso.
In una crisi isterica senza precedenti, il giovane Oliver, ancora tristemente segnato e munito, senza il suo consenso, di una ferita aperta dal dolore della prematura perdita della madre su cui si veniva versata della benzina ad ettolitri, iniziò a buttare all'aria tutto l'ordine che lo avvolgeva: dopo averli strappati, lanciò i fogli in aria, ruppe le penne, schizzado il loro sangue blu sulle pareti, scardinò i cassetti, sferrandoli poi contro i muri e facendoli rimanere incastrati, afferrò tutti i libri, privandoli rabbiosamente di copertina e decine di pagine, staccò e spezzò a metà le mensole della libreria, macchiandole con le lacrime che non smettevano di scendere come in un'emorragia agli occhi, sfondò la sua parete in cartongesso per strappare le anime dei quadri dall'interno, ruppe nel mezzo tutti i Dvd che aveva ed infilzò il morbido schienale della sedia con i resti appuntiti, gettò a terra ogni singolo giocattolo che possedeva, ammaccando ognuna delle assi del parquet, strappò le coperte al letto, le arrotolò e diede loro fuoco, facendo un piccolo falò sul materasso rimasto nudo, con la sua sedia girevole armata di pezzi di Dvd sbriciolò in tanti piccoli frammenti di vetro la sua finestra e ci lanciò fuori monitor, computer, tower, tastiera e mouse; strappi, schianti, rotture, calci, pungi, stridii, urla e pianti risuonavano in tutta la casa.
Dopo aver speso ogni granello di voce che avesse dentro al suo corpo in urla, si sedette nel centro della stanza, si rannicchiò nelle sue ginocchia e pianse ancora, in un terribile crescendo di disperazione, mentre stringeva possessivo fra le mani la foto della madre, unico oggetto che non aveva mai osato profanare.
Un guardingo e timoroso padre entrò nella stanza, allarmato dalle urla, dai pianti e dai rumori provenienti dalla camera del figlio, e, vedendo il disastro con al centro di tutto il figlio, seduto come in una macabra composizione artistica, corse subito verso di lui, ad assicurarsi che stesse bene.
"Oliver, Dio mio, cos'è successo, stai bene?", esclamò preoccupato il genitore.
"Papà... scusa per ciò che ho fatto... mi manca la mamma... troppo", rispose una voce in lacrime mai stata più vulnerabile e vulnerata.
Un forte abbraccio avvolse il corpo tremante di Oliver, seguito da candide parole di consolazione.
"Tranquillo Oliver, la tua stanza si può mettere a posto... la mamma manca anche a me Oliver, manca anche a me... ma dobbiamo accettare il fatto che lei non sia più fra noi, e pensarla come se fosse in un posto migliore. Salutala, Oliver, ci sta guardando dall'alto, e sono sicuro che sta piangendo per non averti potuto abbracciare e baciare e salutare una volta di più."
Un timido sorriso triste si fece strada fra le righe bagnate che solcavano le guance di Olly.
"Dai ragazzone, andiamo a prenderci un gelato.
Magari nel posto dove piaceva di più alla mamma."
Uscirono abbracciati, stando attenti a non calpestare frammenti di vetro o di plastica, mentre i fratelli, stupiti da quell'insolito gesto di affetto, si aggregarono a quell'unione sincera - dopo aver spento l'impulso piromane di Oliver.
Serve per caso che vi dica "4'000'000'000", che vi dica che lui venne reclutato pochi minuti dopo quando un "netturbino qualunque" passò a riprendere il computer lanciato dalla finestra e vide, tramite la minuscola telecamera installata nella tower di Oliver, il suo terribilmente struggente gesto d'affetto, che vi dica che non serviva niente altro che una dimostrazione di affetto tale per capire che era quello giusto?
I freddi codici non erano tutto, anzi: il lato umano, nel suo caso, contava più di tutto il resto.
E come poter deludere un ragazzo del genere, un ragazzo che cerca disperatamente di uscire dal circolo vizioso della tristezza che lo attanaglia tramite lo sfogo che offre l'Arte dell'Hacking?
Non si può.
Era stato scelto - oltre per le sue qualità - anche per questo.
Oliver ancora non sapeva di essere appena stato scelto, al momento nulla lo riguardava, lui si stava gustando il gelato insieme al padre, al fratello più grande, al nuovo arrivato e alla sorella; pistacchio, rum, biscotto, fragola e cioccolato erano i gusti riuniti dentro alla stessa enorme coppetta.
Un sesto gusto, la liquirizia, era stato messo al centro, a condivisione di tutti quanti, coperto da una nuvola di panna montata.
Appena fuori dalla gelateria, con tutta la famiglia sazia ed unita, risero per la scoperta del ricordino del cane dei vicini sui sedili posteriori e per il seguente insulto - "Stupido botolo" - del padre.
Sì, risero insieme anche lungo la via per tornare a casa, e quando cenarono, e quando andarono a dormire, e la mattina dopo.
Perché?
Perché avevano la certezza che qualcuno, anche se da molto più in alto, stava ridendo con loro.

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