Capitolo VI: Ramon

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15 gennaio 2007

Ritagli di giornale con nomi evidenziati, foto segnaletiche e non, appunti presi velocemente, planimetrie di ogni genere, innumerevoli progetti, numeri di telefono scritti con furia e disordine, post-it precariamente appiccicati, puntine arrugginite e lunghi chiodi popolavano la bacheca impolverata e piena di buchi; tutto ciò che era ancora saldo al suo posto, infilzato da oggetti appuntiti - fra cui anche un coltello - che ferivano la carta senza strapparla, era collegato da un filo rosso: la sua sottile ombra risaltava sul bianco che si stava sbiadendo in giallo delle carte e dei fogli apparentemente fissati a casaccio sul foglio di sughero.
Si deduceva palesemente che dall'ultima volta da cui la bacheca era stata consultata un lasso di tempo di certo non trascurabile aveva fatto il suo passaggio; un sottile ragnatela si notava in controluce, ed il filo rosso intenso in alcuni punti si era liberato dalla stretta fulminante delle puntine colorate, facendole crollare a terra in comunione a vari foglietti, mentre lui se ne stava a contemplare lo spettacolo, annoiato ed ammosciato su altre simili più fortunate.
Per terra, un parquet segnato dalle cadute su cadute degli oggetti più disparati e da tutte le suole da cui è stato consumato per anni; languiva se calpestato, scricchiolava se osservato e protestava se compatito, certo di poter sostenere alla perfezione anche il carico più pesante.
Una porta sfondata fungeva da ingresso a questo bizzarro salone, dove un tavolo saturo di termiti sosteneva a fatica degli oggetti decisamente peculiari, inusuali, lontani dalla quotidianità di ognuno di voi: passaporti falsi, pistole impolverate con i loro altrettanto portatori di allergie amici proiettili, matite mangiucchiate sul gommino, disegni di caveau interrotti a metà, sangue secco su cui campeggiavano famiglie di mosche e una ciambella sgranocchiata con avidità ma non terminata.
Un alto comò con vari cassetti riempiva l'angolo a sinistra della porta, difendendolo dalle famiglie di aracnidi che avevano occupato abusivamente gli altri punti morti della stanza; sul suo piano, una bottiglia di un non meglio identificato superalcolico era aperta, rotta in mille pezzi, con il tappo lanciato all'altro capo della stanza.
Il suo liquido, mischiato a quelli di altre decine e decine di fragili contenitori, colava dal comò fino al pavimento, in un immobile movimento di secchezza e solidità, e proseguiva infiltrandosi nei piccoli ed esigui spazi lasciati fra due assi, alcune delle poche che non erano ancora spaccate a metà.
La mensola di legno vecchio sopra al comò era crollata - spiegando timidamente il perché delle numerose bottiglie frantumate, come se fosse stufa di quella noiosa stanza in cui niente di niente era successo negli ultimi venticinque anni: uno dei perni, malato fin nel midollo di ruggine dall'infausto giorno in cui Ramon aveva abbandonato il covo, aveva preso la drastica ed egoistica decisione di suicidarsi malamente, tranciandosi di netto e trascinando con sé nell'Ade tutte le sue cilindriche colleghe non propriamente legali; un solco profondo, nero solo come la morte può essere, inizialmente dritto quindi curvato bruscamente, segnava sulla parete bianca e sul suo intonaco debole il passaggio repentino del chiodo: la mensola, appesa solo per la parte sinistra, era finita a sbattere contro la parete una volta liberatasi dal carico pesante che la opprimeva, strappando al muro una pioggerellina di vernice coperta di polvere, mischiata ora agli alcolici rappresi.
Sul lato sinistro della stanza, a poca distanza dai contenitori maciullati, una porta murata: i mattoni di colore rosso fuoco erano offuscati da centimetri di polvere ed incuria, ma ancora ben incollati fra di loro grazie alle ore di lavoro, maestria e sudore di un muratore locale.
Disseminati ovunque giacevano fogli ingialliti, calpestati senza ritegno dalle ruote di varie sedie che una volta si definivano "girevoli", ma ora bloccate dalla mancanza d'olio come lo è un ottantenne dai reumatismi, e un tappeto sfilacciato e oggettivamente sbiadito giaceva immobile a terra.
Il tour di questo salotto abbandonato a sé stesso finiva proprio sulla finestra che illuminava la stanza: dalle vetrate riempite di crepe concentriche, chiuse con gli scuri verdi - la cui vernice non resisteva più all'attacco del tempo, filtravano strisce di calda e solare luce pomeridiana, che, illuminando i granelli di pulviscolo sospesi a lievitare nell'aria pesante di vecchiaia della stanza, sezionavano l'ambiente, tracciando delle linee divergenti, invisibili e taglienti come rasoi e rendendo l'intero complesso surreale.
Un curioso piccione si era appollaiato fuori dalla finestra, si intravedevano i suoi occhi gialli: provando a cercare un entrata, iniziò a zampettare sul davanzale - un assemblamento di crepe instabili.
Il povero balconcino non resse l'esiguo peso del volatile, crollando in una sinfonia di detriti e calcinacci dal sesto piano del condominio per poi sfracellarsi e sminuzzarsi molto più in basso in mezzo ad un polverone notevole; il piccione se ne volò via spaventato e stizzito, con la sua andatura goffa persino durante il volo.
D'altro canto, però, doveva godere di un'eccellente visuale: l'intera città di Barcellona era distesa a prostrarsi umilmente alle sue zampe, con tutti i suoi palazzi alti e moderni alternati a casupole vecchie e decadenti e a pezzi di storia; il volatile, però, con aria di sufficienza mista a una semplice mancanza di neuroni, pensava soltanto a raccogliere le briciole cadute dal panino di un'inconscio turista, dal cono gelato di un bambino goloso, dal cracker di una vecchietta che al parco si divertiva a lanciarglielo, non avendo molto di meglio da fare.
Proprio in uno di questi parchi c'era un uomo, seduto su di una panchina, come tanti altri; i suoi occhiali specchiati non rivelavano la traiettoria dello sguardo, aiutati dalla misteriosità aggiunta dalla sciarpa arancione acceso arrotolata fin sopra il naso e dalla cuffia nera ben calcata in testa.
Come poteva essere il genitore freddoloso di uno dei tanti bambini che si rincorrevano e giocavano sulle verdi ed erbose colline artificiali dell'area verde - i loro strilli acuti trapanavano i timpani di chiunque lì passasse - poteva benissimo essere un hacker ricettatore della peggior specie, appoggiato proprio su quella determinata panchina rossa perché un collega gli aveva lasciato - nella scatola invisibile appiccicata sotto ad una delle assi - un lavoro da svolgere, profumatamente retribuito.
Ovviamente, Ramon era il secondo tipo di persona.
Raccolse in fretta mediante un movimento della mano esperto e allenato la mappa criptata ed il relativo cifrario, e, guardingo, si allontanò furtivamente dal parco, lasciandosi altalene, scivoli, risate e genitori preoccupati per i figli alle spalle.
Si stava dirigendo celermente verso la zona più disagiata - ma anche per lui più redditizia - della città, quando, tutt'un tratto, un'auto della polizia gli piombò davanti.
Dovette mordersi il labbro per imporsi di non girare sui tacchi e schizzare via nella direzione opposta alla pattuglia, e sostituì questa azione impulsiva che avrebbe generato non pochi sospetti con un fine, elegante e sussurrato "Merda, gli strafottutissimi sbirri del cazzo!".
Si avvicinò a loro con fare innocente, indifferente e innocuo, pronto a scattare come Flash appena girato l'angolo in un vicoletto sudicio, ma i poliziotti, nonostante l'apparenza sempliciotta e un po' tarda, lo fermarono.
"Scusi, lei con la sciarpa arancione e la cuffia nera che trasporta quella borsa da cui svolazza fuori un foglio in codice, si fermi.", affermò uno di loro, credendo forse di essere in blockbuster americano a giudicare dal suo tono fin troppo spavaldo.
Con una voce più melensa del miele imburrato e fritto in una glassa di zucchero, melassa e dolcificante industriale, Ramon cinguettò un effemminato e stupito: "Dice a me, agente?"
"Le pare che ci siano altre persone corrispondenti alla descrizione del mio collega in questa strada?", rimbeccò il secondo agente, anche lui esaltato dall'avere qualche cosa da fare in quella giornata pallosa.
Un fruscio di fogli bianchi caduti da un chissà quale alto palazzo e trasportati lì dal vento funse da palla di spine alla "film western" in quello scontro verbale, velato e visibile a pochi.
Una risata decisamente poco virile ed autentica propruppe un nientesimo di secondo più tardi, seguita dalla conversazione qui riportata:
"Uhuhuhuh, sciocchino, se piango dal ridere poi mi cola il mascara..."
Un gesto plateale verso gli occhi, lucidi grazie ad un corso di recitazione vecchio di anni ma sempre utile.
"La smetta di comportarsi da prostituta, le abbiamo impartito un ord-"
Un ceffone sonoro e decisamente fuori luogo rimbalzò sulla faccia dell'agente.
"E non si permetta mai più di chiamarmi in quel modo!"
L'altro poliziotto, mentre il collega colpito era occupato a controllare che le sue otturazioni non fossero saltate in giro per la bocca, era indeciso fra lo scoppiare a ridere sguaiatamente - ed attirarsi addosso l'odio del collega come una calamita dal peso di sette tonnellate attrae la limatura di ferro - e l'arrestare immediatamente la "quasi-circa-pressappoco donna" per oltraggio e percosse a pubblico ufficiale.
Ovviamente, nel marmoreo rispetto della legge e del collega tramortito, scoppiò in un fragoroso scroscio di risa incontenibili, piegandosi su sé stesso e dovendosi appoggiare sulla volante per non crollare a terra in preda a spasmi di divertimento.
Lo schiaffeggiato non prese bene la reazione del collega, e gli tirò un gancio dritto sulla mascella.
L'altro fece sparire il ghigno dalla faccia, interdetto, e non rimase a lungo senza fare niente.
Una manganellata piovve generosa sulla testa del poliziotto tramortito, elargita in modo naturale come la pioggia si distribuisce sui prati.
Nel frattempo, Ramon se la stava generosamente svignando con fare teatrale e melodrammatico; una volta svoltato l'angolo, sogghignò per la stupidità dei poliziotti, lasciandoli alla loro colluttazione e alla successiva sorpresa, quindi corse dritto nel suo rifugio, all'ultimo piano di un condominio decrepito, che però provava a mascherare i suoi anni con chili di malta e stucco come un'attempata signora che non accetta il corso degli anni.
Inserì una chiave arrugginita all'interno della serratura poco collaborativa di una porta di metallo verde verniciata malamente, munito di fiatone - dopo sei piani di scale di corsa vorrei ben vedere! - e una lieve dose di nostalgia per quel vecchio rifugio.
I chiavistelli scattarono con un sonoro "crack", e un pesante odore di vecchio e di vino ormai diventato aceto si insinuò prepotentemente nelle narici del delinquente, facendogli scappare un colpo di tosse disgustato.
Era davvero da un sacco di tempo che non entrava là dentro: squittii di topi impregnavano l'atmosfera, come se i piccoli padroni di quelle flebili vocine si fossero stupiti dell'improvviso arrivo di un essere vivente diverso da loro.
Un giornale appoggiato su un tavolino con sole tre gambe - la quarta giaceva a terra, in un pietoso silenzio obitoriale - recava una data storica, il 9 novembre 1989, e un titolo ancora più importante: "Addio Est, addio Ovest, benvenuta Germania."
Un brivido percorse la schiena del criminale spagnolo mentre afferrava il giornale (facendo definitivamente morire il tavolino, che crollò alla sua sinistra in una nuvola di muffa stantia): erano passati ben 13 anni dall'ultima volta che aveva aperto quel rifugio.
Entrò nel salotto, e imprecò per le bottiglie di vino crollate a terra; quindi si decise a darsi da fare.
Estrasse lo strumento, e sferrando potenti colpi di martello alla porta murata fece crollare i solidi mattoni che la componevano, trasformandoli in piccole briciole rosse che rimpiangevano l'unità precedente.
Un'ondata di nostalgia lo sommerse nuovamente quando rivide dopo lungo tempo il suo divano bianco latte - intersecato con l'angolo della stanza adiacente, il suo giradischi muto e un basso tavolino di cristallo coperto da un centrino di pizzo, che rifletteva l'immagine dei tomi impolverati che giacevano sul mobile di fronte ad esso.
Lasciò che la gravità lo facesse piombare sul divano coperto da un telo bianco, sollevando intorno a lui una nuvola di polvere e vecchiume.
Quasi si sentì in colpa e fuori luogo aprendo il suo nuovissimo PC portatile.
E pensare che la gente era ancora in fibrillazione per l'avvento della connessione a portata di tutti, mentre lui riusciva a scaricare l'intero programma di ricerca spaziale europeo in pochi secondi...
Si mise a "lavorare" come faceva ogni giorno.
Prese la sua tecnologia di rimbalzo IP, la mise in funzione, si collegò ai server della banca indicata dal foglio ormai decifrato si mise a piratare i DNS.
Quindi, per rifinire il lavoro, diede il via al generatore di numeri casuali - i conti degli utenti passavano da tre a trecentotrentamilatrecentotrentatré euro in pochi secondi - e a qualche schermata di crash, giusto per spaventarli.
Dirottò la chiamata al centro di assistenza tecnica partita nervosa dalla sede monetaria barcellonese e rispose:
"Buongiorno, qui ComputerKing; ci dispiace che abbiate in problema ma siamo lieti di poter aiutare!"
Questo quello che diceva, mentre quello che pensava aveva più o meno lo stesso significato di "Idioti, si fanno fregare sempre."
"Venite subito, vi prego! I server hanno iniziato a fare le bizze, stiamo perdendo centinaia di euro al secondo!", supplicò una voce disperata.
"Le mando subito qualcuno, dove si trova?"
"Alla Banca Nazionale, fate presto!"
Chiuse la chiamata e sorrise.
Un minuto esatto più tardi il tecnico era arrivato.
Un berretto con tanto di frontino ben calcato in testa, gli occhi nascosti dalla scritta "Comp.KING", una divisa che rappresentava perfettamente lo stereotipo di nerd, una cassetta degli attrezzi piena di oggetti all'apparenza tecnologici, un computer e un paio di occhiali con lenti piuttosto spesse si presentarono davanti al direttore della banca.
Il tizio era fin troppo preoccupato per accorgersi che la voce falsamente arrocchita che gli stava parlando era la stessa che gli aveva risposto al telefono; fece entrare Ramon nella sala Server e rimase lì, con le mani che dai - pochi - capelli passavano all'orologio a gesti nervosi e sconclusionati al cellulare, utilizzato per pochi secondi, per poi riprendere il ciclo da capo.
"...be'? Non fa niente? Forse non si rende conto che stiamo andando in picchiata verso la bancarot-"
"Sì signore, so benissimo che state perdendo barcate di soldi, ha per caso intenzione di farmi perdere ulteriore tempo distraendomi mentre i creditori là fuori si accumulano urlanti e insoddisfatti?", rispose l'hacker risoluto, senza nemmeno voltarsi.
"Mi scusi. Buon lavoro.", biascicò mortificato l'uomo, estraendo un sigaretta e accendendola, tremante e in aperta violazione delle regole della banca stessa.
Quindi sparì con un urletto strozzato e incapace di intendere o volere.
Tsk, smidollato, si sarebbe sotterrato se solo avesse potuto.
Ma non lasciamo che le mie emozioni influenzino il corso del racconto, torniamo a Ramon.
Al momento era occupato a far accedere il suo computer ai server, e ci stava riuscendo piuttosto bene.
Uno, dieci, cento, mille, diecimila, centomila, un milione: i soldi salivano vertiginosamente sul conto mascherato e protetto dell'uomo che gli aveva dato il lavoro.
Raggiunse la quota prestabilita, quindici milioni dodicimiladue euro, quindi disattivò i glitch dei server, spense il suo computer e se ne andò.
Il direttore persino lo ringraziò quando gli disse che il problema era stato risolto.
Si sarebbero accorti del furto solo molto più tardi; peccato che tutte e trentasette le telecamere del circuito interno di sicurezza bancario si fossero improvvisamente e simultaneamente bloccate appena il "tecnico" fece il suo ingresso nella banca.
Ah, queste coincidenze sempre più frequenti...
Tornò nel suo rifugio, e si maledisse per non aver pulito prima il marasma creato dalle bottiglie infrante non appena ci camminò sopra - una serie di parole non del tutto graziose vennero declamate ad alta voce.
Si sedette sul polveroso divano, illuminato dalla caleidoscopica luce pomeridiana, e per dimenticare il dolore ricontattò il misterioso individuo, nella speranza di essere pagato e di potersi permettere un rifugio più decente e più grande di quello in cui si trovava.
Aprì il suo portatile - nuovo di pacca, vi rammento - e una serie di codici sovrapposti come in un calligramma andò a formare le parole "Ciao, Ramon", seguito da un ronzio e da una serie di fischi e rumorini, insieme a frammenti lampeggianti di codici verdi su sfondo nero.
"Se non fossi nella vita reale direi che questa è esattamente la stessa scheda di caricamento di Mother...", disse sottovoce Ramon, grande appassionato di film, un po' deluso che qualcuno avesse infranto la sua protezione, ma determinato a cacciarlo e bloccarlo in ogni modo possibile.
"Sì Ramon, questa è esattamente la schermata di Mother, vedo che hai colto il film! Non sei tutto scemo come pensavo, allora...", ribatté il muto schermo per mezzo di un altro calligramma.
"Che ne dici se provi a dirmi chi stracazzo sei e poi ti levi dalle palle?", esclamò lo spagnolo alla stanza vuota.
"Uno che faceva un censimento una volta tentò di interrogarmi. Mi mangiai il suo fegato con un bel piatto di fave ed un buon Chianti.", recitò l'ennesimo calligramma.
"Parli per citazioni, ma ah-ah-ah. Antony Hopkins sta cercandoti per tirarti il suo Oscar dritto in mezzo agli occhi.
Ora tocca a me: come hai fatto ad attaccare il mio tesssssoro?"
"Davvero simpatico sei, intanto prova a pensa' che il tuo computer - con relativi piani segreti e nominativi di amici e delinquenti vari - è in pieno possesso di un cazzone sconosciuto di cui non sai proprio 'na minchia.
Me.
Hasta la vista, baby."
Battuto sul suo stesso campo, cercò qualcosa con cui sfogare la rabbia, ma, non trovando nessun oggetto non fosse già sfracellato a terra o putrefatto o in fin di vita, se la prese con il muro in cartongesso della stanza, iniziando a tempestarlo di pugni, calci e testate, che lasciavano degli evidenti buchi tondeggianti e intonaco a terra.
Quindi, dopo aver praticamente sfondato il muro di mattoni retrostante ed essere quasi precipitato per sei piani, si calmò, e si diresse verso il divano, riafferrando con violenza il PC una volta seduto.
Iniziarono una serie di attacchi terribili lanciati da tastiere distanti centinaia di migliaia di chilometri: un frammento di codice, una stringa, una variabile incognita rimemorizzata o una appena dedotta erano le armi di questo scontro.
Nell'immobilità della stanza il ticchettio veloce e nervoso delle dita di Ramon sui tasti era l'unico elemento di suono e in un certo senso di disturbo assieme all'ansimare concitato dell'hacker latino.
Dall'altro capo delle schermate di lotta un viso era teso e concentrato sul decifrare la protezione informatica e al contempo sul difendersi dagli assalti dei trojan.
Una sequenza di tasti troppo rapidi per essere visti venne seguita da un temutissimo "Alt Gr+freccetta": lo schermo del nemico cominciò a girare in ogni direzione, senza controllo, fino a cambiare colore repentinamente e quindi a spegnersi del tutto.
"Cazzo!", esclamò Ramon infuriato, non tanto con il misterioso avversario elettronico, ma bensì con sé stesso: non era stato abbastanza abile da resistere.
Il portatile di Ramon aveva ormai lo schermo in uno stato di coma irreversibile, quindi l'altro hacker attivò gli altoparlanti.
Una voce modificata con il sintetizzatore piombò nella stanza come un chicco di grandine da quattro chili e mezzo piomba giù dal cielo in un'afosa giornata di sole in agosto.
"Ramon, da quanto tempo! Sempre qua, eh?"
"Cosa vuoi da me? Soldi? Nomi? Amici?"
"No no no, tu mi stai a fraintendere. Non voglio niente di tutto questo. Vorrei solo che per un attimo, per uno spicciolo di minuto, tu mi ascoltassi. Vorresti far parte di un team? Un team molto, molto speciale..."
Ormai non ti servirà più che lo dica, l'avrai imparato a memoria.
Ma per mantenere la tradizione, eccotelo, il tanto agognato numero finale.
5'000'000'000.

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