Capitolo Primo

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Mi svegliai in una stanza immersa nel silenzio e talmente buia che non riuscivo a vedere nulla oltre il mio naso. Ero già stato lì, molte volte. Sapevo perfettamente ciò che stava per succedere, ed ero terrorizzato. Tutto il mio corpo tremava ed era madido di sudore. Nonostante ciò, non cercai neanche di scappare. Ci avevo già provato le altre volte che mi ero trovato in quella stanza, e avevo constatato che non c'erano vie di fuga. Mi abbandonai quindi sul pavimento, rassegnato.

All'improvviso, un cigolio acuto e potente si diffuse rimbalzando sulle pareti interrompendo il silenzio e costringendomi a portare le mani alle orecchie. In tutta la sala si accesero delle luci, che resero visibili le pareti bianche. Dopo qualche secondo, il cigolio si interruppe per lasciare spazio ad un rumore di ingranaggi in movimento. Un pezzo di soffitto, di forma quadrata, si staccò sopra la mia testa e iniziò a scendere in verticale, lentamente, rendendo visibili man mano due figure in piedi sopra di esso che mi guardavano con occhi freddi ed ostili. Sentii il mio cuore accelerare, mentre l'attesa prolungava la mia sofferenza e amplificava la mia paura. Le due persone su quella piattaforma, infatti, si chiamavano Queyv e Askela, ed erano i miei genitori.

Quando finalmente la piattaforma atterrò sul pavimento con un tonfo, Queyv e Askela si diressero verso di me. Io abbassai la testa, chiusi gli occhi e strinsi le mani a pugno, preparandomi a subire la mia punizione, mentre lacrime di rabbia condensata scesero come ruscelli sulle mie guance. Il dolore alla schiena mi colpì, improvviso e inevitabile. Le ferite lasciate dalla frusta sarebbero scomparse soltanto dopo qualche giorno.

Aprii gli occhi, e mi resi conto di essere ancora sul letto in camera mia, dove, realizzai, mi ero addormentato la sera precedente. Intontito dal sonno, osservai la cuccia di fianco al mio letto e sorrisi vedendo che Fieno, il nostro cagnolino, stava ancora dormendo. Quel nome particolare era merito mio, scelto perché, il giorno in cui ci eravamo trasferiti, lo avevamo trovato acciambellato nel pagliaio della nostra nuova casa. Sussurrai il suo nome, e lui in pochi secondi aprì gli occhi, saltò sul letto e iniziò a leccarmi la faccia, senza concedermi il tempo per reagire. Lo accarezzai ridendo finché lui, dopo avermi pulito perfettamente, scese dal letto e corse, abbaiando e scodinzolando, giù per le scale.

Mi alzai anch'io e andai ad aprire le tende della finestra. Il sole era già alto, per cui i miei genitori dovevano essere andati al lavoro già da qualche ora. Come tutti i giorni, mi preparai alla solita noiosa routine. In breve sarebbe arrivato l'insegnante privato che si occupava della mia istruzione, dato che non andavo a scuola. Dopo le due ore di lezione avrei cucinato il pranzo e avrei mangiato solitario sul tavolo in salotto. Il pomeriggio sarei stato libero di fare qualsiasi cosa, ma sempre con una regola: non uscire di casa. Quando avevo sei anni avevamo traslocato nell'unica villa di un piccolo agglomerato di baracche chiamato Wunch, e da allora non ero mai uscito dalla nostra nuova casa, neanche con i miei genitori.

Non conoscevo il motivo del nostro trasferimento: Queyv e Askela mi avevano detto che la causa erano stati i tanti debiti che avevamo accumulato nei confronti dei commercianti del paese in cui abitavamo prima. Questo avrebbe spiegato perché eravamo spariti senza avvisare nessuno, ma io non credevo fino in fondo a quella storia, perché non eravamo mai stati in difficoltà economica. Ogni tanto provavo a sollevare l'argomento con i miei genitori, ma in dieci anni non ero ancora riuscito a scoprire nulla.

Ero all'oscuro anche del perché mi fosse proibito uscire di casa. Nel nostro vecchio paese andavo sempre con i miei amici nei boschi a giocare, ma dal giorno del trasloco questo mi era stato proibito. Col tempo avevo trovato delle cose divertenti da fare in casa, nonostante i miei genitori non mi avessero mai comprato nulla se non il materiale per studiare e montagne di libri: avevo costruito delle maracas riempiendo con del riso scaduto trovato in dispensa dei barattoli vuoti; con dei vestiti che non mi andavano più bene avevo fatto una palla per giocare con Fieno, anche se si disfava ogni volta che lui la prendeva in bocca; avevo iniziato a scrivere storie di creature e personaggi inventati che viaggiavano per Latia; infine avevo le mie biglie di vetro, con cui giocavo per pomeriggi interi. Le avevo prese da una scatola trovata nella mia nuova camera quando ci eravamo trasferiti.

A causa di questo divieto, e di come mi trattavano, ero giunto a odiare profondamente i miei genitori. Da anni avevo in mente di scappare di casa, ma non avevo mai avuto il coraggio di farlo, perché avevo paura di non essere in grado di cavarmela da solo e perché non volevo abbandonare Fieno. Guardando il cortile in terra battuta attraverso il vetro opaco della finestra, però, mi sentii pronto, e decisi che avrei provato a fuggire quel giorno stesso.

Perso nelle riflessioni, sobbalzai quando sentii suonare il campanello. Mi ricomposi e feci per andare ad aprire, prima di accorgermi di indossare ancora il pigiama. Mi cambiai velocemente e scesi: era l'insegnante privato.

<< Ciao. Tutto a posto?>> mi chiese, anche se la sua espressione annoiata comunicava chiaramente quanto ciò lo interessasse.

<<Buongiorno. Tutto a posto, grazie.>>

Lui mi passò di fianco e si avviò verso la biblioteca sbuffando, col suo passo pesante e dondolante, e io lo seguii titubante.

Avevo diviso le lezioni del mio professore in tre tipologie: normali, noiose e veramente noiose. Quella di quel giorno si sarebbe potuta meritare ampiamente una categoria tutta sua, tanto era soporifera. Smisi di seguire la spiegazione più o meno alla quinta frase, e, ascoltando qualche frase ogni tanto, mi sembrava di capire di aver fatto la scelta più furba, almeno finché non sentii un tono interrogativo nelle sue ultime parole, a cui era seguita una pausa. Alzai lo sguardo dalla scrivania e lo guardai negli occhi: si intravedeva un lieve bagliore di speranza nella sua maschera di sufficienza e indifferenza. Aveva fatto una domanda e voleva una risposta in fretta, possibilmente intelligente. Se avessi saputo cosa mi aveva chiesto, probabilmente sarei anche riuscito a darla, ma non ero mai stato bravo a seguire le lezioni. Mi sembrava che l'ultimo pezzo di frase che avevo ascoltato parlasse della catena dei monti Fisop, ma non avevo la più pallida idea di quale potesse essere la domanda. Lui iniziava a perdere la pazienza, e in quel caso sarebbero stati guai, perché lui non mi avrebbe ripetuto gentilmente la domanda, ma sarebbe andato dai miei genitori a dirgli che non ero attento durante le lezioni, e loro, dopo cena, mi avrebbero fatto passare una brutta serata.

Poi mi venne in mente che non sarebbe successo nulla di tutto ciò: secondo le mie intenzioni, prima di sera io sarei stato in un paese abbastanza lontano da lì, e i miei genitori non avrebbero potuto farmi niente. Decisi perciò di non rispondere, ma di fare qualcosa di più divertente.

Lo guardai negli occhi e dissi: <<Professore, non so che domanda lei mi abbia fatto, e non mi interessa affatto. Le sue lezioni sono terribilmente noiose, e lei non può aspettarsi che io la ascolti, o addirittura che io risponda a ciò che lei mi chiede. Penso di averla sopportata fin troppo, per oggi. Anzi, per questi dieci anni. Ora basta, o credo che mi potrei addormentare seduta stante.>>

Mentre proseguivo nella mia invettiva, il suo viso si contorceva sempre più dalla rabbia, ma sapevo che non l'avrebbe scaricata su di me: i miei genitori gliel'avevano severamente proibito. Io divampavo di soddisfazione, perché un insegnante inviperito sarebbe stato un problema in più per Queyv e Askela. Era la prima volta da molto tempo che causavo grane ai miei genitori, perché, da quando avevo capito che le punizioni erano tutt'altro che leggere, preferivo evitare di tirarmi la zappa sui piedi. Non ricordavo che fosse così divertente.

L'insegnante, con la faccia rossa e infuriata, si alzò e disse con voce minacciosa: <<Ti pentirai di questo affronto. Stanne certo.>>

Prese la sua valigetta e se ne andò sbattendo la porta. Io mi precipitai subito in camera per prendere ciò che intendevo portare nel viaggio: dei vestiti, i soldi che mi ero messo da parte e un anello, a cui ero molto affezionato, che mio nonno Iop mi aveva regalato l'ultima volta che l'avevo visto, prima che i miei decidessero di traslocare. Al centro c'era una strana pietra con un incisione che rappresentava un uomo e un elfo che cavalcavano un drago e, al loro fianco, un gigante così alto da arrivare all'altezza a cui il drago stava volando. Era l'unico ricordo di mio nonno che mi restava. Misi tutto in una borsa, tornai al piano terra, presi qualche provvista dalla dispensa e uscii dalla finestra del bagno. Queyv e Askela portavano sempre con loro la chiave di casa per non farmi uscire, e ne avevano data una copia all'insegnante, ma molte volte dimenticavano aperta quella finestra.

Caddi malamente sulla terra battuta, ma mi rialzai subito. La nostra casa era lontana dal centro del paese, era più vicina al bosco. Sgattaiolai in un vicoletto e iniziai a correre verso la foresta, che riuscivo già a scorgere in fondo al rettilineo fiancheggiato da casette in pietra. Imboccai un tortuoso sentiero che si arrampicava sulle colline in mezzo agli alberi, e fui costretto dal fiatone a fermarmi per riposare nella prima radura. Dopo anni in cui non ero mai uscito di casa, il mio corpo non era molto contento della mia decisione di ricominciare a correre così di punto in bianco. Aspettai che il respiro si calmasse guardandomi attorno: non vedevo degli alberi da quando ero bambino e andavo nei boschi col nonno. Li ricordavo molto più alti e imponenti, ma soprattutto più cupi e inquietanti.

Una volta mio nonno, durante una delle ultime passeggiate, mi aveva raccontato una storia molto strana, che ricordavo a grandi linee: "Quando il nostro mondo fu creato, su di esso esistevano solo gli alberi. Non c'era nient'altro, solo vaste distese di alberi immortali ognuno diverso dagli altri. Un giorno Usunfa, la dea della terra, decise di generare tutte le specie di animali, compresi gli umani. Per avere più spazio per vivere e per sfruttare la legna, questi ultimi tagliarono quasi tutti gli alberi. La dea si arrabbiò molto con loro e, apparsa al loro capo Goszo, gli disse che tutti gli umani morti da allora in poi si sarebbero reincarnati in alberi e sarebbero rimasti intrappolati in quella forma per la stessa durata della loro vita precedente. A quel punto l'albero sarebbe morto e loro sarebbero stati liberi di andare nell'aldilà, ma ogni volta che un altro uomo avrebbe tagliato un albero, l'anima che vi era intrappolata sarebbe stata condannata ad un oblio eterno."

Inizialmente la mia immaginazione di bambino era stata molto colpita da quel racconto, e avevo iniziato ad aver paura degli alberi, ma col tempo avevo realizzato che, trattandosi di un mito, non c'era niente di vero in quelle parole.Quando mi sentii in grado di ripartire mi alzai e scattai, senza badare al rumore che producevo pestando i ramoscelli e le foglie secche, dato che non pensavo ci fosse qualcun altro nel bosco. Ogni tanto mi fermavo, allarmato, a causa di alcuni rumori provenienti dai dintorni, ma questi erano sempre causati da piccoli animali, soprattutto scoiattoli.Dopo un'ora e mezza di corsa alternata a piccole pause arrivai alla fine della foresta., dove si aprivano le pianure di Idjifh, una vasta distesa per lo più brulla. Intravidi in lontananza, lungo la strada principale in cui il sentiero si immetteva, le mura di Kejom, il paese dove avrei passato la notte, e iniziai a pensare a cosa raccontare alle guardie. Avrei potuto dire di essere un ragazzo che stava andando a trovare il nonno, ma sarei dovuto entrare dalla parte opposta del villaggio, perché il portone più vicino a me era già chiuso.Mi sembrava una buona idea, perciò ricominciai a correre, aggirai le mura e mi diressi finalmente verso l'unico ingresso ancora aperto, mentre il sole spariva all'orizzonte.  

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