Arrivo al Campo Mezzosangue

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 Michael si sforzava di leggere cosa c'era scritto alla lavagna, ma proprio non ci riusciva: quelle dannate lettere si spostavano da sole, e più lui si concentrava più quelle giocavano a prenderlo in giro. Il ragazzo sbuffò e spostò lo sguardo al pavimento, esasperato.

«Non dovresti sbuffare, Penniman. Dovresti impegnarti di più.»

Impegnarsi di più.

Erano anni che lo faceva, ma mai nessun risultato. L'unico che otteneva era solo quello di sentirsi dire di "impegnarsi di più". Il riccio non rispose e tornò a sedere al suo posto, giusto in tempo per sentire la campanella suonare. Afferrò borsello e quaderni e li gettò con rabbia all'interno del suo zaino, che poi richiuse e mise in spalla. All'uscita di scuola fu lo stesso inferno di sempre. Ragazzi che neanche conosceva lo insultavano e gli lanciavano oggetti addosso: era quel gruppetto di cinque e o sei bulli che vedevano in lui il bersaglio preferito da prendere di mira per qualunque motivo stupido. Era il loro passatempo preferito.

Michael abbassò lo sguardo e passò davanti a loro guardando a terra. Aveva le guance in fiamme perché si vergognava da morire, ma allo stesso tempo aveva paura di dire o fare qualunque cosa, paura di essere picchiato. Perciò affrettò il passo e sentì le loro voci di scherno sfumare mentre si allontanava.

Percorse un po' di strada per arrivare alla fermata del bus, ma quando svoltò l'angolo vide che il pullman era già passato e lo stava lasciando a piedi. Cominciò a correre nel tentativo di raggiungerlo, ma dopo poco si fermò perché il bus era ormai quasi scomparso dalla sua vista. Calciò con rabbia una carta abbandonata sul marciapiede: si sentiva stupido e impotente, la sua vita era completamente stupida. Forse quei bulli avevano ragione su tutto.

Tornato a casa a piedi, lasciò cadere lo zaino in un punto imprecisato del soggiorno e si precipitò verso camera sua. La casa in cui lui e sua madre abitavano era un buco, ragion per cui sentì la donna richiamarlo a gran voce dal soggiorno.

«Quante volte ti ho detto che non devi lasciare la borsa così? Portala in camera tua!»

Michael sentì il passo lento e strisciato di Joannie avvicinarsi sempre di più, finché la donna non aprì la porta e comparve sull'uscio reggendo lo zaino del figlio.

«Devi essere più ordinato» lo richiamò poggiando la borsa sulla sedia e lanciando uno sguardo al sedicenne, rannicchiato di spalle sul suo letto e intento a guardare la strada attraverso la finestra.

«Com'è che hai fatto così tardi, oggi?»

Gli domandò senza ottenere risposta. Si avvicinò allora al ragazzo e gli poggiò una mano sulla spalla.

«Mika...» sussurrò.

Michael si spostò bruscamente dalla presa di sua madre e si voltò con rabbia verso di lei. Aveva gli occhi lucidi, ma nessuna voglia di piangere. Era furioso.

«Non chiamarmi così, lo sai che mi fa schifo questo nome.»

Da checca, avrebbe voluto aggiungere, cosa che gli avevano insegnato i bulli lo scorso anno scolastico. Era da allora che non voleva più farsi chiamare "Mika", soprannome che aveva inventato sua madre solo per lui. La donna sospirò.

«È andata male a scuola?»

«Va sempre male a scuola!» Urlò il riccio. «Va sempre di merda!»

Diede un calcio alla sedia poco distante e guardò a terra per evitare di incontrare gli occhi di Joannie.

«Non usare queste parole volgari» lo rimbeccò usando un tono non eccessivamente di rimprovero. «Cos'è che non va bene?»

Michael si calmò leggermente, trovando nella madre l'unica confidente con cui potersi aprire.

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