•Capitolo 3.0 ~ Hare Street ~

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Ogni mattina, nella strada giusto di fronte, passava un grande trattore piuttosto rumoroso.

Ogni mattina, tranne quella del 17 maggio 1975.

Molto probabilmente fu questo a svegliarlo: il chiarore dell'alba, senza lo stridio degli artigli di ferro sull'asfalto, era troppo insolito perché Oliver continuasse a dormire, facendo finta di niente.

Rimase inerme, percependo l'umidità lasciata dalla pioggia del giorno prima come avvertenza: una minaccia, che si insinuava nelle ossa erose dall'artrosi.

Era abituato a sentirsi correre i brividi lungo la schiena quando, di colpo, si metteva seduto; insieme alle vertigini e alla tachicardia, era uno dei sintomi della vecchiaia che lo aveva travolto con tutta la sua violenza da ormai almeno trent'anni.

I primi capelli bianchi si erano fatti vedere all'età di appena trentacinque anni, sotto lo sguardo timidamente rinfrancato del signor Cecil, suo padre, che invece aveva conosciuto il bianco della sua chioma, fin troppo folta, anche prima di Oliver.

Sebbene l'assenza del trattore, unico rumore delle mattine in Hare Street, fosse stato il principale motivo del brusco risveglio, Oliver non sembrava essere consapevole della singolarità di quel giorno.

Guardava fisso davanti a sé, ripensando agli avvenimenti delle ultime ventiquattro ore.

Si alzò e lanciò un'occhiata veloce fuori dalla finestra, scoprendo, con gran sorpresa, il campo di lavanda ben più colorato dei giorni prima.

In lontananza, alla fine di Hare Street, all'incrocio con Gurthamnock Way e il bosco, poteva vedere all'incirca una ventina di persone, tutte accalcate all'ingresso dell'abitazione di Lorenne Shupblouet, la signora, sulla cinquantina, che vendeva tabacchi e alcolici di fronte al circolo degli scacchi.

Oliver si sentì solleticare dalla curiosità, ma proseguì per la sua antica strada della routine quotidiana.

Appena uscito di casa, con tanto di giacca e bombetta, giochicchiando con le chiavi in tasca, la corrente di aria fresca lo svegliò completamente, seccandogli la faccia, ancora umida.

Il primo sguardo fu per la lavanda, giulivamente in fiore, poi, attirato da una macchiolina scura in lontananza, osservò la gente, ancora lì.

Si chiese quale altro pettegolezzo importantissimo Lorenne avesse promesso di spifferare per aver radunato tante persone davanti alla sua porta.

Sabato e domenica la tabaccheria restava chiusa e, in caso di fatti troppo urgenti per essere saputi dopo due giorni o letti da un giornale, tutti sapevano a chi rivolgersi.

Si incamminò verso il numero 7, cercando, man mano che si avvicinava, di identificare qualcuno.

Vederli in fila gli ricordava un po' la calca che aveva visto crearsi davanti alla porta della mensa dei poveri in tutto il periodo del dopoguerra.

Tra gli altri, c'era una donna minuta e bassa, il suo abbigliamento, sempre troppo colorato, era inconfondibile: la signora Rit, che, per qualche motivo, stava abbracciando Lorenne.

A Oliver sembrò di sentire una risatina da lontano, mentre quello che poteva essere George Limp o, considerato l'andamento fiacco, il signor Darley, si avvicinò un fazzoletto nero al naso.

Il rumore fu udibile da dove si trovava Oliver e quando fu a meno di 50 metri, riconosciuti almeno altri sei soggetti, sentì qualcosa che gli fece sobbalzare lo stomaco: un singhiozzo.

Quello di prima era stato un pianto, non una risata di quelle che Lorenne era abituata a lasciarsi sfuggire quando raccontava le solite barzellette ai nuovi clienti.

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