•Capitolo 5.0 ~ Re Bruciato ~

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L'aria sembrava spremere i vecchi polmoni di Oliver.

Dovette sentire il dolore agli occhi, in tensione, per realizzare di non essere in uno dei suoi rari sogni. Si guardarono in silenzio per poco più di due secondi, ma quando Melina parlò, ad Oliver sembrò di essere rimasto immobile per ore.

«Se non aveva voglia di parlare poteva dirlo subito, non l'avrei disturbata» mormorò, mostrando subito una vena di pentimento sul volto.

Eppure non era offesa, o forse non lo dava a vedere, sembrava convinta di ogni parola detta.

Perché Oliver, invece, avesse reagito a quel modo, non lo sapeva nemmeno lui. Eppure sapeva di essere spaventato da quella ragazza, così uguale a suo padre, l'autentico signor Butler. Per quanto ne sapesse, i due potevano anche essere parenti.

«È pieno di maestri di pianoforte in Inghilterra, molto più capaci di me, per altro» rispose, senza contestare quanto detto da Melina.

Come se potesse farlo, d'altronde.

Ancora una volta, lo aveva ammutolito, e questo non faceva altro che rimarcare la x nera che cominciava a vedere sul suo viso.

Ultimamente Oliver aveva l'abitudine di marchiare le persone, inserendole tra i vari scomparti della sua lista nera. Era convinto che alla gente questo sarebbe importato, se lo avesse saputo, e, sebbene si ripetesse che sapeva bene che non fosse così, si comportava come se il vivere e il morire degli sfortunati presenti nelle sue liste di proscrizione dipendesse da quel terribile segno in faccia che apponeva lui, in persona.

Sentiva, dentro, la rabbia, perfettamente ingiustificabile, che spingeva la sua lingua a lanciare frecce acuminate e impregnate di veleno contro quelle stelle contornate da un fascio di capelli rossi. Non esitò un momento.

«Aveva altro da chiedermi?» disse in tono mellifluo; non sapeva il motivo, ma desiderava vedere il volto di Melina contrarsi e soffrire per il colpo assestato.

La delusione investì il suo morale, sadicamente alto, quando Melina rimase impassibile e la speranza di anche una piccola smorfia soffocò sotto il peso della sua voce sottile.

«No. Lei, invece?»

Ora il viso sfigurato dallo stupore era quello di Oliver, che non comprendeva come lei fosse immune ad ogni suo attacco, come gli rimandasse indietro tutti i dardi.

Figurarsi se l'avesse potuto accettare, ovviamente no, mai.

«Io sì, cosa ci fa ancora qui, se non ha più bisogno di me?» scandì ogni parola, affilando il tono.

Bisogno...

Tutti avevano bisogno di lui.

Per la prima volta Melina sembrò ferita e Oliver si autoconvinse del fatto che non stesse fingendo per pura pietà. Era più una supplica e qualcosa, sempre lo stesso qualcosa, gli additava di essere così debole da implorare persino che la sofferenza altrui fosse vera.

Lei si alzò e si diresse verso la porta.

«Mi dispiace averla disturbata, quando possiamo parlarne con più calma?» disse.

Il rombo del vento non si sarebbe nemmeno percepito se Oliver avesse lasciato uscire la risata che sentiva spingere. Le faceva quasi pena per quanto fosse testarda, ma sapeva che non fosse stupida. Gli piombò in mente l'idea che lei non avesse dato peso a quanto discorso prima, che non si stesse leccando le ferite. Eppure sembrava sincera.

Ma come avrebbe mai potuto esserlo, bianca e forte come Cecil Horgrwuig Butler?

Un impeto di furia lo attraversò e lo scosse così violentemente che lo lasciò senza la facoltà di mettere insieme due parole; lei capì che non avrebbe ricevuto risposta e lo congedò con una frase che gli diede il colpo di grazia.

«Se dovesse sentire il bisogno di parlare, sa dove abito»

Uscì, lasciando che il silenzio tornasse a gridare con la sua voce di rimorso.

Quelle parole furono il suo ultimo fendente, ancora una volta, aveva vinto lei.

Se dovesse sentire il bisogno

Adesso era lui a dover chiedere aiuto?

Quasi si mise a sogghignare, divertito, ma poi, l'ultimo briciolo di lucidità gli suggerì che, in effetti, era proprio disperatamente ed urgentemente bisognoso di sfogarsi.

Questo Melina lo aveva capito, lo aveva fregato.

Il suo morale non resse questo colpo di coda e cadde, gettando Oliver nello sconforto.

Fece per assaggiare il tè, ma percepì il freddo ancor prima di berlo, e lo buttò via, mise l'acqua sul fuoco e se ne preparò un altro.

Mentre aspettava, ripensò all'espressione di Melina quando si chiuse dietro la porta. A Oliver era parso, per un momento, che lo stesse osservando compassionevole, e, per la prima volta da tempo, si era sentito in debito.

Ora, che quel color latte non gli bruciava gli occhi, riusciva a percepire la ragione tornare in lui e potè quasi sentire lo sferragliare della guerra che si stava combattendo tra lui e la parte di sé, tornata a farsi sentire dopo anni di prigionia, che spingeva forte il rimorso; non come quello provato per la morte di Frank, che gli rinfacciava e basta, ma un rimorso nuovo, una voce che, invece che dirgli quanto fosse stato cattivo, gli mostrava come si potesse sentire Melina. Non era pena.

Soffocò subito questa sensazione cosicché la solita parte di Oliver vincesse la battaglia, usando come arma la grande forza di Melina: non poteva averla offesa sul serio, lei era troppo forte perché questo accadesse, quindi lui era innocente.

Ormai la coerenza era solo una parola; era diventato abilissimo nel criticare le qualità altrui e usarle a suo favore quando necessario, proprio come aveva appena fatto con lei.

Aveva usato la forza d'animo di Melina per esentarsi da ogni colpa quando, pochi minuti prima, quella stessa resistenza gli aveva inferto delle ferite profonde.

Questa la considerava quasi una vittoria.

Eppure, se, da un lato, era riuscito, in qualche modo, a mettere a tacere la sua giovane coscienza, dall'altro aveva concretizzato, e quindi riconosciuto, la grande forza di Melina.

Tom, in quel caso, avrebbe detto "scacco matto".

Aveva perso.

Si sedette sullo sgabello, annusando l'aria e percependo il sole pomeridiano abbracciarlo.

Le macchie verdi di sir Casser erano più chiare e il nome della casa produttrice, "Waltier", scritta in oro, brillava.

Tra i vari fogli, appoggiati sul pianoforte, ce n'era uno intitolato "Hymne à la Lune", il compositore era un certo Gérôme Turlennine.

Aveva studiato quel pezzo all'inizio della sua carriera e avrebbe potuto suonarlo ad occhi chiusi; nonostante questo, teneva lo spartito davanti.

Le dita iniziarono a premere delicate una dopo l'altra, lasciando che i quattro quarti guidassero la musica, e, mentre il diesis tuonava misterioso, gli steli di lavanda danzavano aritmici col vento.

La musica era, come al solito, perfetta, ma gli sembrava di muoversi come una macchina, non esprimeva sentimenti alcuni.

Ne era convinto, li aveva distrutti prima.

Era certo di essere molto introspettivo, più di tante persone, o, comunque, abbastanza da capire il motivo della piattezza del suo animo.

Tuttavia, ancora una volta, si sbagliava, accecato, forse, dall'orgoglio.

Infatti i suoi sentimenti erano stati protetti da quella parte di sé che aveva lottato fino alla fine per difendere Melina. Quel guerriero aveva tenuto i sentimenti di Oliver coperti, incassando i colpi al posto di essi. Li aveva protetti come fossero una fiammella in balia del vento.

Eppure Oliver non sentiva nulla, suonava percependo il freddo più totale provenire dal suo cuore.

La luce della favella era ben visibile, mentre luccicava, attraversata dai raggi del sole, scendendo sulla guancia di Oliver, ma il suo calore non si sentiva, e, per quanto si sforzasse, non riusciva a realizzare che era talmente ustionato da non sentire nemmeno il torpore emanato dalla piccolissima fiamma che lottava per bruciare, debole, dentro di lui.

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