•Capitolo 5.1 ~ Re Bruciato ~

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Finì di suonare il brano col fiato corto e gli occhi secchi. Il sole gli aveva asciugato la lacrima, poi si era nascosto dietro un muro di vapore, sentendosi, probabilmente, tradito da Oliver per il brano dedicato alla luna.

Sospirò e riprese a suonare, improvvisando sul brano appena concluso; tra un tasto e l'altro cercava di scacciare dalla sua mente il viso pallido di Melina, che si insinuava ogni qual volta leggeva la parola "lune" nell'intestazione delle pagine dello spartito.

La faccia di Melina era bianca come la luna e le lentiggini -stelle- completavano il paesaggio.

Notò ironicamente che stava suonando un pezzo dedicato metaforicamente a Melina, dopo una discussione con lei, il satellite che girava attorno alla testa di Oliver, facendolo avvampare.

La musica era impregnata dell'inconfondibile stile di Oliver: rapida, dolce e incalzante al tempo stesso.

Negli anni, Oliver aveva maturato una grande abilità, tecnica e mentale, per la quale riusciva ad assimilare ogni stile musicale che suonasse e di modellarlo per crearne uno nuovo, migliore.

Questo era sempre stato il suo scopo: essere al di sopra del normale, e ci era anche riuscito, accaparrandosi tutto il disprezzo e l'odio del padre.

Continuò con qualche musica semplice, sentita mille volte, giusto per ammazzare il tempo, poi, accettando che fosse impossibile arrivare a sera suonando, essendo ancora le 16:50, si alzò dalla sgabello e uscì.

Aprì la porta di ingresso e superò la soglia, rivolgendo una smorfia al vento che tormentava i fiori appena sbocciati nel vialetto.

Il sole stava già abbassandosi, coprendo il campo con un lenzuolo d'oro e facendo assumere alla lavanda un colorito marroncino.

La pelle d'oca si fece sentire sulle braccia di Oliver come per rispondere alla chiamata del freddo e l'altalena, inchiodata a un possente ramo del salice, dondolava, solitaria, donando al paesaggio una grave nota malinconica.

Gli tornarono in mente gli schiamazzi delle amiche di sua madre, quando si riunivano per il tè e sparlavano di tutti. A favorire il piacere di qualche ora passata a quel modo, Oliver si ricordò, c'era un grande gazebo attorniato dai cespugli di more, posto proprio sulla parte alta del campo, sul limitare con la proprietà dei Pleak, poi trasferitisi a nord. Da quella posizione era possibile vedere il campo nella sua interezza e controllare i lavoratori, la postazione ideale per raccontarsi segreti di paese e per annoiare il tempo.

Secondo Oliver la più falsa era la signora Tadeahna.

Una di quelle col grembiule perennemente avvolto alla pancia -piuttosto importante, per altro-, che a prima vista sembrano nonnine pronte a dare la vita per i "poverelli", ma che, non appena trovano l'appiglio, iniziano a parlare compulsivamente delle "vite segrete" degli abitanti intorno, muovendo gli occhi e le mani, come in preda alle convulsioni, solo per dare ancora meglio l'idea della storia, che cercano di disperatamente di far passare per vera.

Quello era uno di quei momenti in cui avrebbe apprezzato le chiacchiere prolisse e noiose della signora Tadeahna. Lei, con la sua impazienza, l'avrebbe sicuramente distratto dalla rabbia che urlava più forte del vento.

Rimase qualche altro minuto a guardarsi intorno, poi gli tornò in mente il libro che stava leggendo in quei giorni.

Quello fu, paradossalmente, uno degli attimi più felici della giornata. Era riuscito a trovare qualcosa che l'avrebbe tenuto impegnato e distratto per ore.

Si gettò sulla poltrona, sprofondando nell'imbottitura. Teneva le pagine e, di tanto in tanto, ne sfogliava una.

La storia stava diventando sempre più avvincente, tanto da non riuscire a staccarsi dalle righe per un momento, o almeno questo era ciò che si convinceva accadesse.

In effetti, era piuttosto curioso che il giorno prima Oliver stesse cominciando a snobbare le vicende di Giselle e Mark, mentre in quel momento vi pendeva letteralmente.

Era come una marionetta, di cui lui stesso tirava i fili.

Ovviamente, in realtà, il libro era terribile, ma Oliver, per qualche ragione, fingeva che gli piacesse. Fingeva a se stesso.

Dopo una mezz'oretta abbondante, quando ormai avrebbe dovuto ammettere di non capire più nulla della storia, il telefono attirò la sua attenzione; prese la cornetta e rispose.

L'inconfondibile voce petulante e acida di Valery, imbruttita dalla trasmissione del segnale, salutò. Oliver annuì ogni tanto, ma rimase in silenzio fino alla fine;

«Ciao» disse, riabbassando la cornetta.

La conversazione non era durata molto; non avevano nulla da dirsi, quindi le erano bastati pochi secondi per riferirgli che, all'indomani, sarebbe stato celebrato il funerale di Frank.

Oliver era scosso, non tanto per le faccende legate alla sua insensibilità eccetera, quanto, invece, per l'idea di rivedere Lorenne nella condizione di quella mattina.

Lesse ancora per una ventina di minuti, poi guardò l'orologio e vide le lancette puntare alle 17:50, realizzando, con delusione, che Mary non fosse ancora arrivata. D'altronde, era venuta i due giorni precedenti, quindi non aveva molto da pulire, e, in effetti, lei era l'unica persona che avesse voglia di vedere in quel momento.

Si stava quasi rassegnando, quando vide comparire la sua sagoma da Sorret Street.

Aveva un qualcosa di grande sulle spalle, da lontano sembrava un sacco, e dovette avvicinarsi ancora di qualche metro perché Oliver si ricordasse dei panni che aveva fatto lavare.

«Ciao Oliver, lascio questi e scappo, devo parlare con un professore di Eliah. Dovevo portarteli ieri, ma non erano pronti, scusa» disse lei non appena Oliver le aprì la porta.

«Puoi metterli a posto tu? Li stiro appena posso» continuò, lasciando il sacco giusto all'entrata.

«Certo, ma, quindi, nemmeno un tè?» chiese Oliver, abbattuto.

«No, devo davvero andare. Ciao e scusa ancora, ci vediamo» rispose voltandosi e cominciando a camminare.

Oliver la vide andare via e cadde nello sconforto. Avrebbe voluto parlarle, dirle quanto era successo durante il giorno: Frank, il sindaco, Joseph, Melina...

Invece era solo, ancora una volta, e dentro di lui iniziò a crescere una sensazione sgradevole. Sentiva che sarebbe rimasto così, abbandonato da tutti, fino alla fine e questo gli suonò in mente come un avvertimento, come se qualcuno lo stesse avvisando del fatto che camminasse sul filo d'un rasoio.

La prima cosa a cui pensò fu la galassia che copriva la faccia di Melina, lei era stata un'occasione rifiutata.

Scacciò via il pensiero, convincendosi di avere moltissimi amici su cui contare, lo fece di nuovo.

Si lasciò scaldare la pelle dai raggi solari, ormai appena visibili da dietro l'orizzonte, poi chiuse le finestre e andò in cucina.

Mary, la sera prima, aveva preparato la carne, e ne era rimasta un po', nonostante avessero mangiato entrambi; la tiró fuori dal frigorifero, l'odore non era per nulla invitante, ma era piuttosto abituato alle cose ripugnanti, ogni mattina, per esempio, mentre si lavava il viso, restava sempre impassibile di fronte alla sua immagine riflessa nello specchio. Inoltre il suo naso, di ben sessantanove anni, aveva perso gran parte della sua capacità sensoriale, e il polline non aiutava.

La serata passò tediosamente, per quel che durò, prima che Oliver andasse a dormire.

Il sonno si presentò sul tardi, quasi gustandosi i momenti di angoscia inspiegabile di Oliver. Era passata quasi un'ora, tra i mille pensieri, poi arrivò e se lo portò con sé nel buio cerebrale, che cullò Oliver fino al mattino successivo.

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