IX.

229 27 11
                                    

She wants to go home, but nobody's home
Is where she lies, broken inside
With no place to go, no place to go
To dry her eyes, broken inside

Her feelings she hides
Her dreams she can't find
She's losing her mind
She's falling behind

She can't find her place
She's losing her faith
She's falling from grace
She's all over the place yeah

(Avril Lavigne – Nobody's home)

Volgograd, Russia

48°42'N 44°31'E

Thursday, 10th December 2015

11.35am

Nevicava di nuovo. Un'altra volta Natasha si trovò da sola per le strade, intrappolata nella giostra dei fiocchi che cadevano veloci. Eppure, quella volta nemmeno la neve poteva sollevarla dal peso che avvertiva dentro il suo petto e che le rendeva difficile muoversi. Non era mai tornata in quella città, non dopo la Stanza Rossa. Aveva passato una vita a scappare dai fantasmi del suo passato, che l'avevano rincorsa ovunque andasse, e ora stava tornando nell'esatto posto al quale la maggior parte dei fantasmi appartenevano. Stalingrado era più moderna ora, ma sempre bella come se la ricordava. Volgograd, non Stalingrado. Era nel 2015 e ancora non aveva imparato a chiamarla col nome giusto... Certe abitudini sono dure a morire. Era davvero magnifica e lo sarebbe stato anche di più se lei non avesse visto sangue ovunque. Ricordava uno per uno i suoi primi incarichi, i primi omicidi. Ricordava chi aveva assassinato in ogni angolo, sorda delle loro preghiere di risparmiarli. Quasi poteva ancora vederli, mentre camminava per le strade, quei corpi senza vita riversi a terra, quelli che lei aveva strappato alle rispettive famiglie, proprio sotto lo sguardo della statua della Madre Russia. All'epoca era giovane, aveva degli ideali. Faceva ciò che la Stanza le ordinava di fare senza fiatare. Pensava di essere intrappolata con loro e che per lei non ci fosse via di fuga, non conosceva un'altra vita. Il ricordo di tutti gli errori commessi, ben piantato nella sua memoria, diventava ad ogni passo meno sostenibile. All'improvviso recarsi alla sede originale della Stanza Rossa non le pareva più un'idea così brillante. Purtroppo, non aveva grandi alternative. Ormai stava esaurendo le idee. Dopo Nizhniy Novgorod non aveva più intenzione di mettere a repentaglio la vita di nessun altro informatore. Ormai sapeva di essere seguita, o almeno tenuta d'occhio. Aveva già corso un pericolo enorme a recarsi da Lev a Mosca, ma aveva fiducia che lui se la sarebbe cavata, lo faceva sempre. Le sembrava di trovarsi davanti a un'equazione nella quale aveva più incognite che termini noti. Tutti coloro che aveva incontrato con dei collegamenti alla Stanza sembravano sapere non solo la sua identità, ma si aspettavano anche che sarebbe arrivata. Aveva ucciso Vasnetsov e la ragazzina di Nizhniy Novgorod, ma la ballerina e l'uomo che aveva incontrato a Mosca erano ancora vivi, quindi ormai la Stanza doveva essere perfettamente al corrente della sua presenza in Russia e delle sue indagini. Sapevano che aveva la copia di Anna Karenina. Lei invece cosa aveva in mano? Un quadernetto con delle iscrizioni che, sebbene le ricontrollasse ogni giorno, non avevano alcun apparente senso. Una boccetta di sangue di una ragazzina con una sostanza che conteneva il DNA di un'altra Vedova Nera, morta da anni. Un libro comunissimo in tutto il mondo con nessuna iscrizione particolare se non dei cerchi sui numeri di certe pagine, apparentemente casuali anch'esse. Sapeva che un "lui" aveva previsto che lei sarebbe tornata per loro, sapeva che c'erano delle nuove Vedove Nere in giro e che una di quelle era una ballerina il cui corpo guariva immediatamente dalle ferite, sapeva che c'era un bunker pieno di cadaveri mutilati di ragazzine. Il giorno precedente, prima di lasciare Mosca, aveva speso quasi tutto il dì a fare ricerche in biblioteca. Aveva letto esami e analisi di Anna Karenina, aveva cercato se i numeri delle pagine cerchiate corrispondessero a qualche serie matematica, aveva cercato sull'archivio qualsiasi frase che comparisse sul quadernetto di Vasnetsov. Più indagava, meno riusciva a capire. Quella faccenda stava diventando più grande di lei. Per quanto sarebbe riuscita a gestirla? Forse avrebbe fatto semplicemente meglio a mollare tutto e tornare in America. Dubitava fortemente che lo SHIELD o Clint l'avrebbero perdonata, però magari Steve o Melinda... Scosse la testa. Magari loro sarebbero anche riusciti a scusarla, ma lei stessa non sarebbe mai più stata in grado di guardarsi allo specchio. Non avrebbe più lasciato che venissero compiute altre angherie. Santo cielo, gli anni con lo SHIELD l'avevano proprio cambiata. Qualche anno prima non si sarebbe preoccupata minimamente di proteggere nessuno, tanto meno se c'era da mettersi contro la Stanza Rossa. Ma questo era prima di conoscere Occhio di Falco e diventare un'Avenger... Si passò una mano nei capelli fulvi e si fece forza. Si chiese come facesse Captain America a trovare sempre la resistenza di lottare contro tutto e tutti, ma d'altronde Steve era sempre stato uno che non si sottometteva facilmente alle idee degli altri. A volte le sarebbe piaciuto essere come lui. Questa volta però, ne era quasi sicura, aveva fatto la scelta giusta. Forse fu solo quel pensiero che la spronò ad andare avanti. Arrivò alla fermata di un autobus e aspettò pazientemente. Per quanto le piacesse camminare, specialmente sotto la neve, la sua destinazione era lievemente fuori città, tra i boschi confinanti, e non aveva alternative se non prendere un mezzo pubblico. Si aggiustò il basco che portava sulla testa e si concentrò nell'osservare un gatto nero che si rotolava nella neve poco più avanti di lei, in modo da tenere a bada i fantasmi. Quell'animaletto le ricordava molto un randagio che si faceva spesso vedere nel suo appartamento a New York. Lei lo aveva soprannominato Liho ed era solita tenere una scatoletta di cibo per gatti nel caso lui si presentasse. Clint la prendeva in giro dicendo che l'aveva vista essere molto più gentile con quel trovatello che con la maggior parte delle persone. Si ricordava di aver pensato di avere in comune molte cose con quel gatto, a partire dal fatto che entrambi non avevano un luogo di appartenenza. Poi sapeva perfettamente cosa volesse dire amare la solitudine, ma ogni tanto uscire dalla propria campana di vetro per provare a interagire con il mondo, sebbene si potesse vivere perfettamente anche senza di esso. Era più una prova per controllare di essere ancora vivi. Chissà che fine aveva fatto Liho, se ogni tanto andava ancora a cercarla per trovare solo un appartamento vuoto.

Black Widow: Forever RedDove le storie prendono vita. Scoprilo ora