Dopo aver letto ogni singolo foglio stampato dalla cartella top secret del pc di mio padre, avevo le idee ancora più confuse.
Avevo creduto che leggere quei files mi avrebbe dato delle risposte, mentre mi ritrovavo ad avere ancora più domande.
Alcuni dei files contenevano vecchi documenti firmati dal pugno di mio padre e mia madre. Risalivano a quando avevo all'incirca sei o sette anni, ed erano stati rilasciati in California.
Per quanto ne sapevo io, non ero mai stata da quelle parti, né da adulta, né tantomeno da bambina.
Nonostante mio padre viaggiasse spesso per lavoro, i suoi spostamenti erano limitati alla costa est, così come i rari viaggi che facevamo insieme durante le vacanze estive.
Ma quei documenti erano un semplice dettaglio trascurabile, in confronto agli altri fascicoli che avevo letto.
Party Poison veniva nominato davvero troppo spesso. Era come se mio padre avesse un'ossessione nei suoi confronti.
Gli unici altri nomi che citava così tanto erano Gerard e Korse.
In una riga nominava anche Donna Way.
Ora, è ben chiaro che io non sapevo assolutamente nulla di ciò che stava succedendo o che fosse successo nel passato.
So solo che i miei genitori conoscevano Donna Way da anni, e che mia madre era una sua ottima amica.
So anche che fino ad un certo punto andavano parecchio d'accordo, ma poi per qualche strano motivo i rapporti si slacciarono del tutto.
Pensandoci meglio, riuscii a ricordare che il momento in cui mio padre smise di frequentare i Way risaliva allo stesso periodo in cui mia madre cominciò ad ammalarsi.
Me ne stavo seduta con la schiena poggiata contro una parete di una delle mille fabbriche nella Zona Industriale, ed avevo totalmente perso la cognizione del tempo. Ormai in testa avevo solo l'idea di riuscire a capirci qualcosa. Così mi misi a riflettere sulla mia infanzia. Sul giorno in cui mia madre cominciò ad ammalarsi, poco prima del divorzio con mio padre.
Ricordavo davvero pochissimo. Era come se avessi voluto rimuovere quei ricordi perché facevano male, e pensai che era comprensibile perché una delle scene più frequenti che riuscivo a farmi tornare in mente raffiguravano mia madre che piangeva istericamente ogni volta che usciva dallo studio di mio padre.
Non ricordavo molto altro. Mi tornò in mente il giorno in cui mio padre mi portò un nuovo peluches e si sedette sul mio letto, cercando di tranquillizzarmi mentre mi spiegava che lui e la mamma non andavano più d'accordo ed avevano deciso che per il mio bene era meglio separarsi.
Mi misi a piangere, perché io non volevo, ma lui mi abbracciò spiegandomi che purtroppo mia madre era molto malata ed era stata portata in un centro medico dove si sarebbero presi cura di lei.
Eppure, dovetti sforzarmi infinitamente per far riaffiorare quei ricordi.
Erano memorie sfocate e lontane, era quasi come se non mi appartenessero nemmeno.
Mi provocai un fastidioso mal di testa, cercando di ricordare oltre, ma tutto ciò che mi veniva in mente erano le telefonate rare di mia madre che mi chiedeva come me la passavo e mi assicurava che presto si sarebbe presa cura di me.
Col tempo cominciai a pensare che le cure che le stavano dando non fossero così adeguate, perché dopo anni ed anni ancora non era tornata.
Mi abituai a non averla più intorno. A stare da sola con mio padre e la mia guardia del corpo.
Sentivo la sua mancanza, ma ogni volta che piangevo mio padre veniva a consolarmi, e più passava il tempo, più la malinconia andava scemando. Era come se pian piano presi consapevolezza del fatto che mio padre aveva ragione. Che mia madre stava così male che era strettamente indispensabile, per il bene di tutti, che restasse sotto controllo in quell'ospedale dove io non potevo nemmeno andare a trovarla.
Mi resi conto solo in quel momento, mentre la luce del sole spariva per dar spazio alla sera trasformando il tranquillo posto che mi ero trovata nella Zona Industriale in uno scenario quasi spaventoso tanto fosse buio e silenzioso, che era quasi assurdo.
Non poteva essere normale il modo in cui pian piano rinunciai al desiderio di volermi ricongiungere a mia madre. Non poteva essere normale il modo in cui, mentre le prime volte che sentivo qualcuno nominare "Victoria" sentivo una fitta al cuore, col tempo anche il suo nome aveva smesso di smuovere qualcosa in me.
Cominciai a pensare che io e mio padre eravamo entrambi delle persone orrende, perché l'avevamo abbandonata.
Provai a ricordare qualcosaltro, qualche altro momento della mia infanzia.
Mio padre non mi avrebbe mai e poi mai portata da lei, così cercai di rovistare nella mia memoria per riuscire magari a ricordare se mai fossi venuta a conoscenza del nome della clinica in cui era rinchiusa.
Non ci riuscii. Non ricordai nulla.
E non ebbi ulteriore tempo per pensarci.
Sentii un rumore di passi pesanti sul suolo in ghiaia che circondava la fabbrica dove mi ero nascosta.
Vi ho gia detto che da quelle parti non c'è mai nessuno, così non riuscii a non spaventarmi.
Mi alzai in piedi, raccogliendo tutte le mie carte, pronta a correre il più velocemente possibile se ce ne fosse stato bisogno.
Cercai di muovermi sielnziosamente verso la parte opposta alla provenienza del suono dei passi che si facevano sempre più vicini, ma prima ancora che potessi cominciare a correre, sentii una voce chiamarmi.
Non conoscevo quella voce, ma d'istinto mi voltai.
Alla penombra non riuscii a riconoscere i tratti del volto dell'uomo che avanzava verso di me.
I suoi contorni erano delineati, aveva una grande chioma di capelli intorno al viso, ed avanzava lentamente, come per non spaventarmi.
A qualche passo di distanza da lui, c'era anche una figura più minuta. Era una ragazza, era poco più alta di me ed aveva dei lunghi capelli che si muovevano sulle sue spalle ad ogni passo.
«Chi siete?» chiesi. Non so bene se fosse giusto chiederlo, o anche solo restar ferma lì ad aspettare che si avvicinassero.
Comunque lo chiesi e basta.
L'uomo sollevò le mani, come per farmi vedere che non impugnava armi e che non aveva intenzione di farmi del male.
«Lavoriamo per tuo padre. Devi venire con noi.» disse.
Come se ciò bastasse a convincermi che potevo fidarmi.
Ovvio che non mi fidavo. Non mi fidavo di nessuno a quel punto.
I due si guardarono per un attimo. Poi la ragazza fece un passo avanti.
«Puoi fidarti di noi...» disse con quello che nella penombra mi sembrava un mezzo sorriso «Ma non abbiamo molto tempo, dobbiamo portarti da tuo padre».
Anche senza i miei poteri avrei potuto sentire l'ansia che entrambi provavano in quel momento.
«Che c'entra mio padre?» chiesi nervosa.
Giuro che avrei pagato oro per sapere cosa diavolo stava succedendo, chi fossero quei due tipi e cosa diavolo c'entravano loro con me e mio padre.
Sembrava che tutti conoscessero mio padre, chiunque avevo intorno aveva qualcosa a che fare con mio padre, o col suo lavoro, o con non so nemmeno io cosa che però era indubbiamente legata a mio padre.
«E' lui che ci ha mandato qui a prenderti. Sa che hai rubato dei files dal suo computer, e vuole che ti portiamo da lui. Ma il tempo a nostra disposizione è davvero poco, ci sono così tante cose che dobbiamo spiegarti che purtroppo qualche minuto non basta.» rispose l'uomo.
Sollevai un sopracciglio «Come fa mio padre a sapere che ho letto i suoi files? E cos'è che dovete spiegarmi? Riguarda i fogli che ho letto? Si tratta di quei documenti?» chiesi seriamente curiosa. Insomma, quei due sicuramente, con le buone o con le cattive, mi avrebbero portato via da lì, e sembravano davvero convincenti quando dicevano di dovermi spiegare ed io, l'ho detto, non volevo altro che delle delucidazioni quindi tanto valeva stare al loro gioco.
«Bene, verrò con voi, allora.» dissi infine «Ma voi fareste bene a cominciare a spiegarmi tutta questa faccenda».
Mi aspettai un sorriso, un sospiro di sollievo, non lo so, qualcosa.
Ma i due semplicemente fecero dietrofront «Seguici» dissero all'unisono, prendendo a camminare sulla ghiaia verso la strada principale della Zona Industriale.
Feci qualche passo di corsa, per riuscire a stargli dietro. Camminavano velocemente e, sopratutto, non stavano ancora dicendo nulla.
«Dunque?» chiesi cercando di superarli per poterli guardare in volto.
Finalmente sulla strada principale i lampioni accesi illuminavano bene i due.
La ragazza era decisamente carina. Aveva un viso sveglio e furbo, occhi scuri e carnagione olivastra. I suoi capelli erano incredibilmente lisci e lucenti, ed erano neri come il carbone.
Mi ricordò una bambina che veniva a scuola con me quando ero piccola. Ma non ricordavo molto di quando ero piccola, quindi evitai di pensarci.
Mi dissi che sicuramente al momento non era affatto rilevante.
Ovviamente, come in vari momenti in tutta questa storia, avevo torto.«Sai mantenere un segreto?» chiese l'uomo.
Non feci nemmeno in tempo a rispondere che lui riprese a parlare.
«Non appena vedrai tuo padre, dovrai fingere di non aver capito nulla riguardo ciò che hai letto in quei fogli, ok?».
Non riuscii a trattenere una risata «Oh, non c'è bisogno di fingere, non ci ho capito nulla sul serio...» mormorai, tornando immediatamente seria non appena i loro sguardi si posarono su di me glacialmente.
Ok, non avevano molta voglia di scherzare, era chiaro.
La ragazza mi lanciò un'occhiata anche abbastanza scocciata «Meglio così, allora...» disse alzando gli occhi al cielo.
Poi mise una mano nella tasca della sua giacca di pelle e ne tirò fuori una collana d'argento, che aveva un ciondolo circolare sul quale erano incisi dei numeri.
Era un numero di telefono, quello lo avevo capito.
«Mettilo al collo. E non farlo vedere a tuo padre per nessun motivo al mondo.» disse seria. Dio, era carina quanto antipatica, comunque.
Indossai la collana senza fare ulteriori domande.
«Siamo arrivati» mormorò l'uomo indicando con un cenno della testa il vialetto d'entrata di casa mia.
Avevo così tanti pensieri per la testa che il tragitto era sembrato più breve del solito.
Le luci della cucina erano accese, e l'auto di mio padre parcheggiata davanti al garage.
Non la parcheggiava mai lì fuori se non quando andava di fretta.
Era chiaro che quella sera tutti avevano fretta, in qualche modo.
Feci un respiro profondo, seguendo i due, che tra l'altro erano stati anche così maleducati da non presentarsi, dentro casa.
Mio padre ci venne incontro sull'ingresso, con un'aria preoccupata tanto quanto nervosa.
«Candice!» esclamò. Pensai che volesse venirmi incontro ed abbracciarmi. Non so perché lo pensai, dato che comunque non lo fece.
Restò in piedi, poi mi guardò, poi guardò il ragazzo, poi la ragazza.
Poi voltò le spalle, e si incamminò verso la cucina.
Spostò una sedia dal tavolo «Siediti...» disse, serio come se fosse appena morto qualcuno.
Lo guardai incuriosita.
Magari era arrivato il momento della verità! Magari mio padre aveva deciso di farmi capire cosa diavolo stava succendendo!
O magari mi stava per dire che ero diventata pazza ed avevo le allucinazioni ed in realtà non era successo affatto nulla ed io avevo ereditato il gene della follia da mia madre e...
Mio padre spostò un'altra sedia e la posizionò di fronte a me. Fece un cenno con il capo alla ragazza.
Lei fece una smorfia, e con molta poca grazia si mise seduta.
«Ed ora?» chiesi. Per un attimo, pensai a quella scena che avevo visto nella mente di Poison. Quella in cui io ero su una sedia e Party Poison mi teneva la testa come per strapparmi via il cervello, come aveva detto Mikey.
Scossi la testa. Mio padre non mi avrebbe mai fatto del male, mi dissi.
La ragazza allungò una mano e mi afferrò il polso destro. Ritrassi il braccio, d'istinto, ma dal suo sguardo della serie "Idiota, non voglio mica amputartelo, dammi questo braccio e stai buona", compresi che ero un'idiota, che mica voleva amputarmi e che dovevo darle quel braccio e stare buona.Mi risvegliai alle 11,45.
Il sole era già alto nel cielo e filtrava dalle tende della mia cameretta prepotentemente.
Mi sentivo davvero poco bene, la testa era pesante e ci misi un pò a mettere a fuoco la vista.
Ero certa di non aver bevuto nulla di alcolico la sera precedente, eppure avevo tutti i sintomi di un post-sbornia clamoroso, mal di testa, nausea, stanchezza nonostante avessi dormito fino a tardi...
Cercai di ricordare cosa fosse successo prima che andassi a letto, ma non ricordavo molto. Solo che mi ero messa a letto più presto del solito perché non mi sentivo molto bene.
Dalla cucina provenivano dei rumori così, con molta fatica comunque, mi diressi al piano di sotto.
Non sapevo nemmeno perché fossi a casa di mio padre e non a casa mia.
Forse avevo litigato con Frank.
Magari avevamo discusso ed io me ne ero andata a dormire da mio padre. Magari avevo pianto tutta la notte e quello era il motivo di un risveglio così faticoso.---
Un altro capitolo. marveladdicteed89 ok, lo ammetto, voglio partecipare ad un concorso ma per farlo la storia deve avere almeno 10 capitoli pubblicati, quindi siccome al momento sono a Roma ed ho wifi tutta la vita ne approfitto, che tra qualche torno al campeggio e addio connessione.
Giuro che la smetto di aggiornare e di taggarti XDBuona giornata a tutti bella gente
Xoxo
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