Sospetti

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I due si scambiarono un'occhiata fugace, ma preoccupata. Sembrava stessero comunicando telepaticamente, come se fossero indecisi su cosa dirle.
Lei assunse un'espressione confusa, e, inarcando un sopracciglio, richiese risposta.
"Ecco..." cominciò Ayame, torcendo nervosamente le mani sul grembo.
Perché, si chiese la giovane, era tanto inquieta? Aveva fatto una semplice domanda, no?
"Non lo sappiamo neanche noi" terminò Takashi, volgendo lo sguardo a terra.
La ragazza sgranò gli occhi, sgomenta. Non solo lavoravano per un estraneo, ma non sapevano nemmeno per cosa lavoravano. Ed il senso dov'era? Era un'azione illogica ed irrazionale, quella. Percepì la rabbia montare dentro di lei, ma tentò di reprimerla e non esprimerla.
"Si dice che si creerà una medicina per tutte le malattie" si affrettò ad aggiungere la bionda, ancora agitata.
Aoko aggrottò la fronte, affilando gli occhi. "Si dice"? E chi poteva darle la conferma? Passò lo sguardo a Sugimoto, che, intanto, aveva cominciato a sudare.
"O una soluzione alle guerre." Iniziò a tremargli una gamba, provocando un ticchettio sul pavimento di quarzo bianco.
"Perché siete così nervosi?" Era meglio essere schietta, aveva deciso. Non doveva fare giri di parole, voleva solo sapere.
I colleghi si guardarono un'altra volta negli occhi, per poi rivolgerli alla più piccola.
"È una lunga storia, tesoro..." provò Sakura, ma la ragazza aveva tutte le intenzioni di estorcere loro quelle informazioni.
Incrociò le braccia sotto al seno, raddrizzandosi sulla poltrona. "Raccontamela. Abbiamo tutta la sera, non c'è fretta." Il suo tono era gelido e pungente, e fece deglutire la sua interlocutrice. Ma come biasimarla, del resto? Aveva il diritto di apprendere. Era stanca di dover essere trattata come un burattino per soddisfazioni di qualcuno a lei del tutto sconosciuto.
La donna cercò conferma nello sguardo dell'amico, che annuì, mesto.
"Hai ragione" asserì lui, fissando gli occhi piccoli e marroni in quelli grandi e blu di lei. La viaggiatrice resse il confronto, alzando il mento. "Riguarda tutto il capo, o Boss, o come lo vuoi chiamare."
Aoko s'interessò subito: poteva finalmente venire a conoscenza di chi si nascondeva dietro quel nome, quel semplice sostantivo che troppo spazio lasciava all'immaginazione.
"In realtà, non potrei nemmeno dirlo" proseguì lui, inspirando ed espirando con flemma.
La piccola emise un'esclamazione di stupore. Perché lui non poteva pronunciarsi? Perché lei non poteva sapere? "E... Il motivo?"
Lui e la collega si guardarono un'altra volta negli occhi, ma lei cominciava a stizzirsi. "Allora?" continuò, testarda, a domandare.
Takashi rilasciò un profondo sospiro, capitolando. "Va bene. È... una cosa che è stata detta solo a me, Ayame, Hiro, Iwao e, ovviamente, Katashi."
Aoko assottigliò gli occhi: ovviamente? Cosa c'era di ovvio? Tuttavia, decise di non interromperlo: non voleva perdere altro tempo, e non sapeva se lui, una volta disturbato, potesse cambiare idea. Semplicemente, preferiva non rischiare.
"Da ormai tempo, si pensa - o meglio, ce l'ha fatto credere lui" continuò. Un'altra cosa era quindi appurata: il capo era un maschio, "che il risultato di tutta questa fatica sia, appunto, un rimedio per tutti i mali."
La viaggiatrice annuì, con un'espressione perplessa dipinta in volto: non gliel'avevano già detto?
"Ma, qualche giorno fa, poco prima che arrivassi tu, Katashi portò qui una lettera, scritta dal capo in persona." Sospirò un'altra volta, sebbene ora sembrasse più indispettito che rassegnato. "Purtroppo non l'ho a portata di mano: la tiene sempre Hiro. Ma va be', penso che mi crederai, no?"
Aoko mosse nuovamente la testa in consenso; dopotutto, come poteva non credergli? Aveva udito e visto le cose più assurde, in quei giorni. Forse, non sapeva nemmeno più cosa significava "scetticismo".
"Ecco... Abbiamo trovato due lettere, dentro quella busta, non solo una. E l'altra, quella non scritta dal capo, diceva cose... strane."
La mora, a quelle parole, si accigliò, esortandolo a continuare.
Ayame, viceversa, sembrava del tutto estranea alla discussione: non li guardava, non li ascoltava, non si sentivano nemmeno i suoi respiri. Continuava a guardare i propri piedi, con i pensieri che vagavano lungi da quella realtà. Riusciva solo ad avvertire un brutto presentimento: come se, solo riferendo quelle parole alla ragazza, avesse potuto scoprirsi in pericolo.
"Come... 'Non fidatevi di lui' o 'Non c'è nessuna panacea'. Cose così, insomma." Si grattò distrattamente la nuca. "Però non sappiamo chi l'abbia mandata. La grafia non ci dice nulla, però sembra molto più - come dire?... grossolana, per gli standard del diciottesimo secolo." Giunse le mani in grembo, fissando intensamente la giovane dinanzi a lui.
"E quindi?" lo incalzò, spazientita.
"E quindi si pensa che sia... una persona che ha usato il meridian" concluse, austero e secco.
Aoko ragionò qualche attimo, collegando tutti gli indizi e cominciando a formulare ipotesi; non poté che restare sensibilmente amareggiata quando giunse ad un esito: stavano accusando lei.
Storse il naso ed arricciò le labbra, senza, però, pronunciarsi.
Lui parve aver capito cosa balenava nel cervello della ragazza, e alzò una mano, come a volere bloccare quei pensieri. "Non ti stiamo puntando il dito contro, Aoko."
Lei lo interruppe subito, sbuffando, e simulò una risata. "Ah, no? Perché - guarda un po' - mi hai fatto capire così."
L'uomo assunse un aspetto misericordioso, quasi volesse scusarsi. Provò a sorriderle, ma gli uscì solo un riso sghembo e forzato. "No, non è così" obiettò, scrollando il capo in senso di diniego. "Potresti essere tu, in un futuro, come potrebbe essere lo stesso Katashi."
L'altra poggiò un gomito sul bracciolo della poltrona di pelle, collocando la sua guancia destra sul pugno chiuso. "Non avete prove."
Lui ridacchiò. "Dovremmo forse controllare le impronte?"
Intanto, Sakura aveva alzato sia il mento che lo sguardo, sforzandosi di prestare ascolto a quel dibattito. "No!" esclamò, attirando gli occhi atterriti e sconvolti del collega e dell'amica. Era sempre stata impulsiva - proprio come Aoko -, e odiava questa sua caratteristica. Si maledì un istante dopo aver parlato; o meglio, urlato. Dannazione! Da dove le era uscita quella contestazione?
Takashi la scrutò ancora più interessato, iniziando a sospettare che potesse realmente celare qualcosa, magari conforme a quell'argomento.
"E perché?" domandò, dunque, lecitamente.
La piccola, al contrario, la osservava con autentica curiosità, con un grande punto interrogativo - che, però, prendeva la forma di un "grazie" - ad accenderle il puerile viso. Quella sua sfaccettatura non l'aveva mai vista; era vero, conosceva Ayame solo da pochi giorni, ma le si era già affezionata: era come se fossero in armonia, come se si conoscessero da anni. Aveva anche notato delle analogie con Johanne, la quale sembrava quasi un disfemismo della bionda; quest'ultima, invece, era come un'attenuazione: meno maliziosa, ironica ma non dileggiatrice, attenta ma non indiscreta. Cionondimeno, non l'aveva mai vista nervosa, irruenta.
La giovane donna posò i palmi sulle cosce coperte dai jeans scuri, facendo pressione e stringendosi nelle spalle. Tossicchiò un po', decisamente a disagio, e si ritrovò a detestare sempre più la sua irriflessività. "Oh... ehm... Non penso che l'ispettore sarebbe d'accordo a far prelevare le impronte di sua figlia" inventò, la sua menzogna atta solo a convincere le due figure esitanti intorno a lei. "Sono sempre minorenni."
Sugimoto prese a ridere di gusto, quasi avesse appena udito la barzelletta più divertente al mondo, rimpiazzando la sua precedente tensione con puro divertimento. "Ma stavo scherzando, Ayame!" Le posò una mano sulla spalla. "Credete davvero che facessimo una cosa del genere?" chiese, rivolgendosi ad ambedue le ragazze.
L'adulta s'impegnò a sorridergli, e, restando compiaciuta di se stessa, seppe creare un perfetto e falso riso. "S-sì, scherzavo anche io..." Il suo tono, tuttavia, la tradì: era quasi tremante, flebile come quello di un malato.
L'imponente portone si disserrò proprio in quel momento, e Sakura ringraziò se stessa di essere andata a richiedere la cena: il signor Tamura sorreggeva con una sola mano - risultando più come un cameriere, che come un segretario - un enorme vassoio, avente sopra tre abbondanti porzioni di ramen di manzo.

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