Sotto il cielo di Capraia (p. 3)

10 2 2
                                    

Semaforo. Lo conosco solo di fama, come chiunque abbia visitato un po’ Capraia. Ma non sono in grado di raggiungerlo, soprattutto non adesso che comincia a tramontare. Non ho modo di avvisare Lou, sono certo che mi abbia telefonato da una cabina telefonica. Mi aspetterà là per ore: posso dimenticare tranquillamente la riconciliazione. Decido di raggiungere l’unica cabina telefonica che mi viene in mente: quella vicino alla piazza. Forse ce ne sono altre? Perché non ho mai voluto visitare il paese? Mio zio avrebbe dovuto insistere. Lou avrebbe dovuto insistere, non sarei in questa situazione disperata, come rinchiuso in una bolla: mi aggiro incredulo tra le strade e le vie, ignorando gli sguardi penetranti degli anziani e quelli seccati dei pochi bambini, richiamati in casa dalle madri. Aggiro una pianta di fiori, colpendola con un piede. Sento il coccio che si frantuma, ma corro più veloce, per evitare di essere presente quanto la proprietaria noterà il danno. Corro, sentendo pulsare la vena sul collo, sentendo graffiare la gola per la fatica. Vedo l’insegna di una cornetta del telefono, ma Lou non c’è. L’ansia comincia a prevalere sul buon senso e sulla ragione. I miei occhi guizzano da una parte all’altra della stradina, sperando che da una delle finestre illuminate si affacci lui. Aspetto invano, con la speranza che la sua coscienza gli suggerisca di venirmi a cercare. Poi una mano mi afferra, mi giro di scatto e ho già la bocca aperta pronta per urlare, ma i suoi occhi mi bloccano. Non una parola e nessun cenno, mi prende soltanto la mano, la stringe forte, come a ristabilire un contatto. Intrecciamo le dita e ci muoviamo, dopo un muto dialogo.




Non mi aspettava, ne sono certo, ma nemmeno io mi aspettavo che sarei tornato a prenderlo. Ci siamo lasciati bruscamente e io ho in mente di troncare definitivamente i rapporti con Jean, eppure la mia mano non ha esitato a riallacciarsi con la sua. Le mie dita non hanno seguito un comando, e si sono semplicemente incrociate alle sue, desiderose solamente di ristabilire un equilibrio. Ora sono confuso, perché il mio corpo non vuole seguire la mia mente e necessita della presenza di Jean. Eppure non mi fermo, abbiamo tanta strada da fare, penserò.
Attraversiamo sentieri stretti, dove, a volte, il terreno risulta instabile. Camminiamo tutta la notte e, senza l’attrezzatura adatta, spesso scivoliamo o ci sfioriamole gambe. In ogni caso non voglio lasciare Jean troppo indietro, è la sua prima volta su questi sentieri, sicuramente una delle sue poche volte sulla terra ferma. Non voglio distanziarlo troppo per non farlo cadere, ma, in realtà, non voglio che si allontani troppo da me. Così vicini, riesco a sentire il suo calore sulla mia pelle. Due volte gli ho afferrato il polso, in due tratti pericolosi e scoscesi, e ho potuto ascoltare il battito veloce del suo cuore.
Comincia già ad albeggiare quando riesco a toccare la superficie arrugginita della struttura metallica. Non abbiamo parlato neanche un istante durante il nostro percorso, ma i nostri corpi si cercavano costantemente. Mi sfilo la maglietta, ormai appiccicata al mio addome e la stendo su una trave. Mi distendo a terra e tocco con la mano la terra vicino a me. Non posso più rimandare questo momento. Dovrò vincere, la mia mente dovrà vincere. Jean si distende accanto a me.

“È bellissimo qua” la sua voce è un po’ rauca, forse per la fatica, forse per la paura. Rimaniamo ancora in silenzio, lasciandoci accarezzare dal primo vento della mattina, con il solo rumore dell’acqua a cullarci.
“Senti, Lou,” sapevo che avrebbe ceduto prima di me “ho pensato a lungo… e voglio essere sincero con te. So che abbiamo riscontrato diverse difficoltà nel vederci e nel sentirci, ma voglio che, d’ora in avanti, sia tutto più semplice, soprattutto per te. Io sono felice anche se ti vedo cinque minuti al giorno, anche se devo spiarti dalla barca mentre nuoti o quando ti nascondi nell’ombra. Sono felice perché mi basta sapere che ci sei, per stare bene. Tutte le volte che venivi a recuperare la bottiglia con il messaggio, ti osservavo e sorridevo, perché vedevo la tua trepidazione mentre srotolavi il biglietto. Ero felice perché vedevo che tu ci tenevi a quei piccoli rituali che rendevano speciali i nostri incontri.” Mi accarezza delicatamente la mano, quella bruciata per la caduta. Si siede. Adesso cerca i miei occhi.
“Ma so che tu soffri, so che cinque minuti non sono sufficienti, so che non può essere sufficiente per te parlarmi dall’acqua, sorridermi dal mare. So che non si può. Perciò,” fa una lunga pausa. So quello che dirà, perciò serro gli occhi: anche questa volta è lui che parla, sta facendo lui il discorso che mi sono preparato. Ha preso lui coraggio ed è lui che farà finire tutto questo. Anche sapendo cosa mi dirà, anche sapendo quali sono le parole che mi ero preparato nel mio discorso, in ogni caso non riesco ad abbandonare la persona accanto a me. I capelli ricci sempre scompigliati, che mi sarebbe tanto piaciuto accarezzare, le sue mani grandi e piene di piaghe, che avrei voluto curare, gli occhi, chiari e lucidi, dove mi sarei voluto perdere. Una piccola lacrima sfugge dalle mie ciglia e crea un percorso luminoso sulla mia guancia. “Jean, non sono pronto a dirti addio” lo dico così piano che penso di averlo soltanto pensato. Mi volto verso di lui e in un attimo la mia mente abbandona il controllo dei miei movimenti. È tutto tremendamente sbagliato, ma elimino finalmente le distanze che ci allontanavano, tocco finalmente il corpo che da mesi potevo solamente intravvedere nell’acqua brillante del mare. Accarezzo il suo viso bagnato dal sale delle mie lacrime. Non mi importa se sono più piccolo, non mi importa se ho sempre cercato di risultare all’altezza, in questo momento voglio solo essere libero. È sbagliato, è disumano, è scorretto, eppure non voglio il paradiso, se posso avere lui. “Lou, ero un carcerato.” Lo guardo: i suoi occhi blu sono lucidi e illuminati dal debole sole mattutino. “Volevo essere sincero con te. Ero venuto qui a Capraia per il centro penale. Poi sono stato rilasciato dopo otto mesi. È questo il motivo per il quale la mia famiglia mi ha abbandonato e lavoro con mio zio. Lentamente sto ristabilendo un contatto con le mie origini, sto lavorando per essere accettato di nuovo in famiglia. È questo quello che mi dicevo prima di conoscerti. Quando tu sei entrato nella mia vita, non potevo accettare di continuare a essere quello sbagliato, non accettavo l’idea di avere altro materiale di discussione per i miei genitori: non hanno mai capito le mie scelte, non le hanno mai condivise. Mi hanno umiliato. Volevo essere nuovamente un figlio degno della mia famiglia, degno della loro approvazione e del loro supporto. Non potevo avere ancora elementi per essere disprezzato, dopo tutto il mio impegno. Volevo allontanarti” sono incredulo e spaventato e stupito e amareggiato e deluso e sconfitto. Mi sento così stupido, così ingenuo. “Lou … sbagliavo. Non capivo che la mia vera natura non è tentare di essere perfetto per loro. Non mi accoglieranno mai di nuovo, io sono un “errore”, non sarà mai come prima. Lou, voglio essere perfetto per te. Non mi interessa la mia famiglia, perché per te ho attraversato tutta l’isola, graffiandomi le mani, le gambe, consumandomi i polpastrelli, cancellandomi le impronte digitali. Perché io non voglio avere un’identità, non sono nessuno, senza di te.” Lo bacio, a coronamento della mia decisione, abbandonando tutti gli schemi che avevo progettato.

RedDove le storie prendono vita. Scoprilo ora