Allo Specchio

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E le lacrime seguono il lungo profilo delle guance, scavate dalla sofferenza, dalle ingiustizie. Allo specchio vedo un viso segnato dalla crudeltà della vita, dall'abbandono. Un volto consumato, spogliato della giovinezza, spogliato della gioia di vivere. La bocca serrata nella smorfia di un dolore che attanaglia il cuore in una stretta soffocante. Abbandonate a se stesse, le onde brune si scuotono disordinate e le mani si uniscono in preghiera e supplicano, supplicano di non dover più sopportare, di non dover più fingere. Gli occhi opachi si riflettono nel metallo lucente: sono grigi e inespressivi, quasi fossero disegnati su questo volto straziato. Il giallo delle piastrelle diventa luminoso, acceso, abbagliante; le mani si stringono a pugno. La lama proietta la luce ancora e ancora. Le piastrelle diventano migliaia, come le insicurezze di una quattordicenne.


Lancio il coltellino nella vasca, con la testa che scoppia e torna l'ombra. "Non sono pronta". Spalanco la porta e mi rifugio nel letto ad assemblare le schegge di una vita infranta.



E le ore continuano il loro ciclo inesorabile, senza sentire ragioni, senza sentire dolore, senza sentire preghiere. E dal buio diventa giorno: la sveglia, la colazione, il silenzio, il ticchettio assordante del tempo, i vestiti, uno sguardo a papà sul divano e le chiavi.


La scuola, le urla, i bulli, le macchinette, il preside, ancora poche ore, il sonno, la matematica, la morsa alle tempie, il dolore, i bulli, la disperazione, la campanella.


Conto i passi rapidi e strascicati, fingendo di ignorare le risate, gli insulti, ma non si può ignorare il cuore che sbatte dentro al petto.


Provo a ignorare le spinte, gli scherzi, ma non si può ignorare il sapore amaro delle lacrime che si ingoiano ogni santissimo giorno.


Provo a ignorare il sangue, le risate, la strada, ma non si può ignorare il vuoto dentro di sé.


Il portone di casa diventa consolazione, ma anche filtro attraverso cui tutto è ricordo. E così le risate diventano sussurri e le spinte diventano lividi, ma il vuoto rimane.


Mi raggomitolo sul primo gradino delle scale ad ascoltare il ritmo del cuore, che non mi abbandona. L'inesorabile battere potrebbe lasciarmi in pace, invece continua imperterrito, nonostante le preghiere, nonostante le suppliche, nonostante sia proprio io a chiederlo, nonostante sia già morta dentro.


Batte ostinatamente. Batte.


Raccolgo i pensieri e scalo gli ultimi gradini. Il suono acuto della serratura che scatta ferisce il silenzio. Cammino e non vorrei guardare, cammino e non voglio crederci, cammino e vorrei essere insensibile, annegando nel dolore lungo una vita. E invece mi fermo davanti alla porta del soggiorno. Papà è ancora disteso tra le bottiglie, con la pelle sgualcita e il sonno pesante, l'alito acre e i capelli incollati alla guancia. Non posso guardare ancora, non devo guardare ancora: non provo più rabbia, ma vergogna, no, malinconia.



"Sei Barbara? Sei tornata da me?" sussurra lui, gli occhi serrati e un filo tangibile di speranza nella voce. La verità è dura da digerire anche per un ubriaco, che beve per dimenticare una realtà troppo difficile da affrontare.


Scavalco le lattine, le bottiglie, le casse, vuote, anzi piene di rassegnazione. Entro in bagno e lo specchio mi rimanda quel viso sconosciuto, sospeso tra vita e morte, tra bambina e donna, tra mamma e papà. Gli occhi scavati, i capelli sparpagliati, il dolore sulla pelle.


Infilo le dita tra le ciocche e tiro leggermente le punte: una piccola fitta mi trapassa il cuore.


Tiro più forte, ma è ancora troppo poco, strappo quei ciuffi di anatroccolo e le lacrime cominciano a scendere, ma è ancora troppo poco.


Pianto le unghie nella carne, ma è ancora troppo poco.


Mi cerco intorno affamata di dolore, affamata di morte.


Noto un dettaglio luminoso nella vasca, un luccichio, mi infilo dentro e trovo il bagliore della lama. Non provo più euforia, ma affanno. Ammiro il coltellino rubato a papà qualche giorno fa. È appuntito e leggermente seghettato ai bordi. Lo usava per aprire le lettere. Lui non ha mai cercato di aprire il suo cuore, di aprirsi a sua moglie o a me. Prendo la lama e, tremando, avvicino il polso sinistro, sollevo la manica.



"Per te, mamma, che mi hai donato la vita e poi mi hai lasciata". E incido. Il senso di liberazione sovrasta il dolore.



"Per te, papà, che non hai saputo superare l'abbandono". E incido. Volano pensieri di carta.



"Per te, vita, che non mi hai saputo amare". E incido.

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