Capitolo 2. "Stammi lontano"

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"Le persone che mi hanno detto 'sono qui per te' sono le stesse che ora non sanno di me, di come sto o di come mi sento, del fatto che non provo più nessun sentimento."

Sono stata costretta ad andare in quel centro di recupero. I giorni in cui ci vado sono: il lunedì, il mercoledì e il venerdì.
Il martedì e il giovedì vado dalla psicologa e il sabato e la domenica sono costretta a stare in casa, chiusa nella mia camera.

La psicologa non farmi parlare di tutto ciò che mi passa per la mente, di come mi sento e di quello che provo per la mancanza di mio fratello.
Nel centro per i tossici invece siamo tante persone messi in cerchio che parliamo dei nostri problemi, del "perché abbiamo iniziato a fumare".
È un circolo vizioso, la mia mente, da una settimana ormai, non fa altro che essere connessa alla realtà. Quel posto non fa per me, lì ci sono persone che stanno veramente male, hanno lo sguardo perso nel vuoto e non sono più connessi con la terra.

Voglio ridurmi come loro?
Ovviamente no, ma non riesco nemmeno a controllare i miei pensieri, non riesco a stare bene, non riesco a pensare a me stessa. «Spero di non dover fare questa strada per il resto della mia vita». Si lamenta mia madre mentre guida verso casa.

Sto tornando adesso dal centro, è un po' lontano da dove stiamo noi, quindi devo raggiungerlo e devo tornare sempre con qualche mezzo, solitamente mi viene a prendere lei, per assicurasi che io ci sia andata.
Anche se in realtà la segretaria l'avvisa ogni qualvolta che ci vado.

Il nome di mia madre è Lydia, le somiglio molto: abbiamo la stessa carnagione chiara, le stesse labbra carnose e gli stessi occhi verde scuro a forma di cerbiatto. Lei però ha i capelli castani, io invece li ho rossi, come mio padre
- e come li aveva/ha mio fratello -, mi piacciano molto come colore e non ho mai pensato di cambiarlo.

Ho dimenticato l'ultima volta in cui ho visto un sorriso sulle labbra di mio padre o sulle sue, sono sempre arrabbiati, pensierosi e impegnati.

Sollevo gli occhi al cielo poggiando la testa sul finestrino. «Mamma ti prego, chiudi quella bocca». Dico già stufa.

Ogni volta che mi viene a prendere è una tortura per me.

Sento il suo respiro diventare pesante, si è arrabbiata.

Dopo mezz'ora di strada circa, arriviamo in casa; stiamo in una delle strade più benestanti della zona, di due piani, rustica e con tanti alberi attorno.
Esco subito dalla macchina e vado dritta nella camera di mio fratello, cominciando a piangere con la testa sul cuscino.

Sento il rumore della pioggia cadere sulle mie finestre, ogni tanto la stanza viene illuminata da qualche fulmine, questo tempo descrive il mio umore del momento.

Charles mi manca tantissimo.

Dopo i compiti sono uscita di casa, sono andata a piedi da starbucks, nonostante la pioggia fitta, ma la mia mente aveva bisogno di uno svago.

Sono seduta al bancone e ho preso il mio solito frappuccino al caramello. Ho un gran mal di testa, non so bene il perché io sia uscita di casa, potevo starmene sul letto. «Come stai? Va meglio adesso?». Chiede qualcuno accanto a me.

Questa voce mi fa trasalire.
Non mi sono ancora voltata, ma so benissimo chi si trova al mio fianco.
Guardo dalla sua parte e lo vedo.
Chiudo i pugni, sento le unghie entrare dentro la mia pelle, il dolore è l'unica cosa che riesce a distrarmi.

Mi volto dalla sua parte e incrocio il suo sguardo. «Oh si, mi piace tantissimo andare in un centro per tossici e avere lo sguardo dei miei compagni, e di altre persone, continuamente addosso!». Dico ironica con tanta rabbia senza staccare lo sguardo dai suoi occhi.

Sono di un verde smeraldo davvero acceso, difficile dimenticarsi del suo sguardo.
I suoi capelli castani sono spettinati come la prima volta in cui ci siamo visti, ha la barba appena spuntata e uno sguardo misterioso. «Io penso che prima o poi mi ringrazierai. Anzi, ringrazierai i tuoi genitori». Dice convinto e facendo un piccolo sorriso.

Sbuffo, mi viene da ridere.
Bevo un sorso dalla mia bevanda e sottovoce dico: «Non vi ringrazierò mai».

Non hanno mai fatto niente di buono per me e per la mia famiglia in questi quattro anni?
Perché dovrei ringraziarli?
Perché mi stanno facendo disintossicare?
Non era quello che volevo, quindi non li ringrazierò.

Mi chiedo ancora perché quel giorno io sia andata a scuola, la mattina non volevo nemmeno alzarmi, ero arrivata in ritardo.
Non dovevo entrare, era meglio se tornavo a casa o al parco. Se solo potessi tornare indietro, potrei cambiare moltissime cose. «Cosa?». Mi chiede.

Mi volto dalla sua parte stufa. «La smetti di seguirmi? Ti ho visto anche l'altro giorno, il ruolo di stalker non ti si addice». Dico infastidita.

È vero, tre giorni fa l'ho visto nuovamente nel parco, ero andata lì dopo essere passata dalla mia psicologa e sono sicura di averlo visto. «La città è piccola». Risponde sollevando le spalle.

Inarco un sopracciglio e lo guardo dalla testa ai piedi. «Siete ridicoli». Rispondo disgustata.

Mi alzo dallo sgabello, non ho più voglia di starlo a sentire o di stare accanto ad un poliziotto.
Non hanno mai portato a niente di buono.
Mentre che cerco la banconota nella borsa noto che ha già pagato anche per me.
Sollevo gli occhi al cielo, chiudo la borsa e prendo il mio frappuccino andandomene, non ho nemmeno voglia di insistere. «Sei davvero una donna gentile». Sento dietro di me.

Mi ha seguita nuovamente, sono uscita dal locale e lui eccolo qui, davanti la porta che non vuole lasciarmi andare via. «Non ho bisogno di un cane che mi segue, se l'avessi voluto me lo sarei presa». Rispondo in modo acido.

Prende dalle mie mani l'ombrello e lo apre mettendolo alla mia testa. «Guarda ciò che stanno facendo i tuoi genitori per te e non rovinarti la vita», dice passandomi l'ombrello ormai aperto. «E non bagnarti».

Mi sta trattando come se fossi una bambina o sbaglio? «Ti chiedo solo di andare via, non farò niente, ma tu togliti dai piedi». Dico con tono implorante e stufo.

Non ho voglia di vedere né la sua faccia e né quella dei suoi colleghi. «Mi odi così tanto?». Chiede ridendo.

Mi sta prendendo per il culo?
Non gli conviene proprio.

In più si sta bagnando tutto con la pioggia. «I miei genitori non ti hanno pagato per seguirmi, vero?». Chiedo guardandolo dall'alto verso il basso.

Ne sono capaci e non mi stupirei se solo fosse così. «Non sono un poliziotto corrotto». Dice mettendo sopra la testa il cappuccio del suo giubbotto nero.

Finalmente!

«Allora non farti trovare più nei paraggi per favore». Fingo un sorriso e sollevo le spalle.

Faccio un passo indietro, e mi volto.
Non ho più voglia di sentirlo un minuto di più.
Ha proprio la faccia da stronzo, non mi fido di lui. «Credo che tu abbia bisogno di stare per molto tempo in quel posto». Risponde alle mie spalle.

Lo ignoro e vado via.

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Troy Reyes

Missing #WATTYS2017Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora