Your claim it's hell, I entered Heaven

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Ero seduto sul mio letto, avevo tra le mani un libro di scuola e le lettere scappavano da una parte e dall'altra.

Andava un po' tutto male.
Avevo pochi amici e per quanto sapessi ascoltare, le loro parole non erano mai più di tanto pensate.

E le parole sono potenti, tanto potenti.

Mi sentivo un'anima senza destinazione, avevo paura di star gettando la mia vita. Pensavo di aver rubato il posto a qualcuno ma non avevo il coraggio di dirlo a mia madre.
Lei mi chiedeva sempre se fossi felice ed io le rispondevo di sì.
Ma la verità era un'altra. Non potevo dirgliela di certo.
Era che non mi sentivo bene, non capivo chi mi stava attorno.
Non ricevevo stimoli dalla gente che conoscevo, incontravo, guardavo negli occhi. Pensavo che il problema fosse nel mio essere; un attimo prima mi sentivo intelligente, un attimo dopo inadeguato alla vita, con qualcosa di tragicamente folle.

La musica mi emozionava, era l'unica cosa che mi faceva vibrare in qualche modo il cuore.

Mi ero rassegnato all'idea di essere solo. E di affrontare senza aiuto o comprensione alcuna,  tutta la mia stranezza. Non mi piaceva quello che vedevo fuori.
Ero così esile, così alto, così inutile ed insignificante.
Nessuno aveva mai provato interesse per me e le uniche a ripetermi che fossi bello ed intelligente erano le mie sorelle e le mie vecchie zie, che erano ormai ferme ad un prototipo di bellezza tanto giusto quanto dimenticato.
Ero convinto che la mia anima fosse piena di espressività e creatività.

Cazzo, lo sapevo.

Ma agli altri appariva invisibile. Io apparivo invisibile.
Se solo qualcuno avesse avuto occhi più profondi, più limpidi, più privi di pregiudizio, io non sarei stato così solo.

Avevo diciotto anni ed il mondo mi odiava.
L'universo mi aveva forse creato per dimostrare quanto non avessi mai ragione? Con chi dovevo prendermela?

Avevo un'idea ed un attimo dopo, accadeva qualcosa per cui quell'idea si rivelava fallimentare.
E sprofondavo nel mio universo fatto di risa incomprensibili, di lacrime cercate e trascinate sul volto come l'illuminante di una star del cinema.

Chiusi il libro e mi diressi verso lo zaino situato sulla sedia accanto alla scrivania. Estrassi il registratore ed iniziai a riascoltare la lezione di scienze: da un po' di tempo mi facevano studiare così, colloqui orali al posto di verifiche scritte. Ogni volta mi sentivo il solito diverso, specialmente quando ridevano di me.
Riuscii ad imparare quelle due ore di lezione noiose e preparai il necessario per il giorno dopo.
Fuori era buio ma decisi che sarei uscito a prendere una boccata d'aria.

Ogni volta che varcavo la soglia di casa era una preghiera di rivoluzione.
Inascoltata ma, almeno, era una preghiera.
Pregavo di incontrare qualcuno che mi stravolgesse la vita; di trovare sotto il bicchiere di birra un foglio con su scritta una canzone dimenticata da un giovane di talento. Speravo fino a crederci che il caso mi facesse inciampare nella vita, quella vera.
Constatai con piacere che in casa non c'era nessuno. Ma, del resto, erano solo le otto.
Le mie sorelle erano probabilmente a casa delle loro amiche.
E mia madre a lavoro, come sempre.
Papà era fuori città, lavorava in marina e non sarebbe tornato prima di luglio, al termine della missione. Scrissi un biglietto e lo posizionai sulla bacheca informazioni: eravamo tutti abituati a leggerla appena entrati in casa. Niente telefonini, era quello il nostro modo di comunicare.

Esco con degli amici, non tornerò troppo tardi.
Mica xx

Avevo un problema, adesso. Nessun amico, nessun posto in cui andare, nulla da fare. Ma dovevo evadere: mettere il piede fuori da quella gabbia era già un bel traguardo per la mia persona senza entusiasmo.
Volevo andare lontano, così controllai di avere tutte le carte in regola per prendere la metropolitana, senza rischiare un'altra multa per mancato pagamento del biglietto.
Mi diressi verso il centro della città, quello popolato, pullulante di gente.

Buckingham Palace svettava davanti a me con maestosità: si fermavano a guardarlo, chiedevano ai passanti di scattare foto di sé solo per avere un ricordo tangibile, altrimenti non-ricordo.
L'inglese usato dalla maggior pare di loro era tremendo e non poteva non scapparmi un sorriso di fronte al tentativo del più coraggioso del gruppo di turisti di fingersi, oltre che folle, anche competente.
Passai per il bel St. James Park e mi ritrovai su Birdcage Walk, presi per Queen Ann's gate e mi ritrovai piegato a carponi sul pavimento a raccogliere  una banconota da cinquanta sterline.
Chissà chi l'aveva persa. Mi sentii per un attimo in colpa ma la possibilità di cercare il proprietario in quella vasta area di Londra era una prospettiva decisamente meno allettante: avrei tenuto quel denaro per me e ne avrei fatto l'uso che desideravo. Finalmente il caso mi aveva donato una sorpresa positiva.
Adesso dovevo pensare a come utilizzare quei soldi. Avevo intenzione di fare qualcosa di strano, senza pensare alle conseguenze, per una volta nella mia vita. Magari non li avrei spesi tutti ma il fatto che prima ero convinto di sopravvivere anche senza, mi dava la libertà necessaria per respirare, disobbedire e ridere di questo.

L'orologio al polso segnava le nove e ventitre minuti.

Io intanto camminavo e pensavo, pensavo e di tanto in tanto mi sedevo su una delle innumerevoli panchine.
Avevo già fatto sette di queste soste e non avevo ancora macchinato un valido modo per sentirmi un ribelle.
Svoltai in una strada secondaria ed il movimento, la gente iniziarono a consolidarsi nel modo più frenetico: vidi una coppia di innamorati baciarsi con passione e foga. Pensai a quanto triste fosse la vita di un diciottenne mai stato baciato e proseguii, scuotendo la testa e focalizzandomi ancora su quel tesoro venuto dal cielo che mi portavo nella tasca sinistra. Un cane peloso e tranquillo, guidato da una donna anziana dall'aspetto curato, mi abbaiò contro per poi scavare sui miei pantaloni con la lingua penzolante.

Con un fastidioso accento scozzese, la signora mi avvertì che si trattava di coccole. Il cane si chiamava Garrett: quelle due "r" non potevano essere più marcate nella sua pronuncia, le mie orecchie inglesi furono stranite e divertite.
La salutai, mantenendo per un poco un sorriso sulle labbra.
Vidi in lontananza un'insegna parecchio luccicante, attraente: c'era scritto "Heaven". Non avevo mai sentito nominare un locale del genere anche perché raramente la mia famiglia si spingeva nel centro londinese.
Mi avvicinai a passo spedito e notai fuori un gran numero di ragazzi grandi ed imbottiti di birra. Non avevo idea di quale fosse la porta per entrarci ma anche io volevo provare l'ebbrezza dell'alcol nelle vene. Dovevo sembrare davvero uno sfigato in mezzo a tutti quei muscoli. Pensai che nessuno fosse nella mia stessa situazione: tutti quegli omoni ben vestiti e con la colonia addosso dovevano avere donne altrettanto notevoli, con cui andare per locali e poi gettarsi a letto ubriachi, stupidi ed insensati.

«Ehi, ragazzino! Dove vai?» mi disse uno di loro. Si voltò ai suoi compagni e lanciò un sorriso sghembo. Non sapevo se fosse di scherno, sorpresa o interesse. Avvertii però una scossa di adrenalina percorrermi la schiena ed arrivare dritta al cervello.
Ne volevo dell'altra, così decisi di giocare ancora, sebbene non fossi di certo nella posizione per farlo.
«Devo entrare, mi aspettano.» non sembrai molto credibile. Il ragazzo bruno, dalla barba perfetta, parve incuriosito e continuò il discorso, chiedendomi chi dovessi incontrare.
«Andiamo, facci il nome. Qui ci conosciamo tutti».
Mi sentivo così impuro per quella conversazione bugiarda e torbida. Ma stavo bene.
«La mia ragazza.»
In coro, i bei garzoni dell'Heaven emisero una sonora sfilza di risate. Si prendevano persino la pancia, da quanto erano divertiti.
Le lacrime stavano risalendo rapide, ancora.
Era così evidente che non avessi speranza neanche con la più brutta del locale? Cosa stavo facendo?

Pensai a mia madre, desideravo abbracciarla per non sentirmi così solo e desideroso di indipendenza ed idiota ed impacciato. E quanto le volevo bene.

Ero talmente assorto nei miei pensieri che non avevo neanche percepito il braccio del ragazzo barbuto a contatto con il mio. Mi aveva trascinato dentro.

Come al solito, non avevo capito nulla.

Avevo collezionato la mia ennesima figura di merda. Perché quando si trattava di mettere in pratica quella libertà che bramavo, cui aspiravo, mi cacciavo sempre in guai più grandi di me?

Quella notte mi avrebbe cambiato la vita.
O forse ne avrebbe solo disvelato l'essenza.

Non c'era altro da fare che vagare sotto le stelle. Del West, di solito.Where stories live. Discover now