Φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ - ciò che nasce desidera seppellirsi

317 12 4
                                    



Non avevo pensato alla mia fine, o per lo meno non in modo serio e spaventevole.

Non la temevo, perché nella vita avevo fatto un po' tutto, un po' bene e un po' male.

Vivevo per il mio lavoro, per l'immagine da cogliere. Quando ero in giro, guardavo la faccia della gente, ero curioso, ma non poi così tanto. Mettevo me stesso in quello che facevo, nel duplice significato di impegno ed autobiografismo.
Stavo sempre zitto.
Sapevo comunicare molto bene, però: il silenzio lo faceva sempre per me. In fondo, non parlavo con nessuno da tantissimo tempo. Questa sofferenza, io l'avevo ingoiata, combattendola con la forza dei sensi e del piacere.
Il piacere: era diventato una religione per me, avevo assuefatto la mia persona a riceverne sempre in vista della fine. Ma, in realtà, ero un abitudinario. Temevo i cambiamenti e spesso ero scappato.

Anche con lui avevo provato a farlo.
E ci stavo riuscendo.

Se solo non m'avesse cercato con tanta alacrità; se solo avesse scelto una vita migliore; se solo fosse stato più attento, beh, avrei continuato a crogiolarmi nella mia meditazione sulla morte, che era essa stessa la mia arte.
Le lacrime mi stavano graffiando la pelle chiara, rendevano i miei occhi ancora più trasparenti. Ora non riuscivo a sollevare il volto, non m'attiravano i suoni delle voci della gente tutt'intorno. Evitavo il loro esser felici, ché mi ricordava tutto quel che stava per accadere. Conoscevo bene quale sarebbe stato l'esito di quell'oretta d'aria. Non lo prevedevo. Era solo che non potevo passarla liscia sempre.
Mi sentivo inerme, indifeso, a piangere per strada. Un bambino mi strattonò la giacca, chiedendomi cosa avessi. Aveva due occhi innocenti e puri; ed io mi scostai, per paura di contaminarlo. Sapevo la strada da fare, non perché l'avessi fatta tante volte ma solo perché non mi potevo permettere di abbandonarmi ai pensieri. La sigaretta non servì a calmarmi, ottuso com'ero dalla negatività.

Pensavo a mio nonno, a come l'avesse gestita alla perfezione; ai miei genitori che, tante volte, m'avevano detto di aver ragione ed io non ci avevo creduto, convinto e testardo come poteva essere un finto ribelle all'età di sedici anni. Non mi avevano mai voluto bene come ad Isidoros ed era straziante.
Il risultato della mia stupida filosofia era straziante: non avevo che me stesso.
Aver supposto che tutto quel che facevo fosse giusto, senza conseguenze, con la stessa convinzione con cui un avvocato difende se stesso, mi distruggeva ad ogni passo.

Pensai a Michael che era per me un'essenza bella, del bello di un'idea. Mi chiedeva sempre di far l'amore ma non mi toccava mai senza sapere prima che io lo volessi. Aveva un'anima pura, la più pura che io avessi mai incontrato in quella vita torbida. Si nutriva di curiosità, tuttavia era un bene che la sorte gli avesse dato equilibrio. Certo, aveva un po' la malattia dell'abitudine, che pure è un'altra morte, ma io gliene abbattevo un poco i confini. Qualunque cosa sarebbe stata migliore di me, per lui. Cosa avevo io da offrire ad un'anima bella, se non una discesa vertiginosa all'impuro?
Volevo il meglio per lui.
Il meglio non ero io.

Ma quella bocca, quegli occhioni verdi, quel continuo scandagliare la mia casa, quegli "Andreas?" sussurrati prima di ogni frase, quei movimenti meravigliosi ed impacciati erano il pane di cui avevo ossessivo bisogno.
Amavo il suo essere, non a mio modo.

Ripassai le epoche della mia vita e mi domandai cosa avessi seminato di buono.
Mi venne in mente l'arte.
E mi venne in mente lui.

Mi era sempre apparso come un "fuori posto": avevo scelto di sorridergli. Quando stava per finire sotto una macchina, quando guardava fuori dal finestrino con le lacrime agli occhi e quando mi baciava il collo. Mi era sempre sembrato piccolo. E come quando il cattivo incontra il buono, che ha paura che a far del male siano gli altri, così avevo avuto da subito la percezione di doverlo proteggere io.
Io, io, io e solamente io.
Sapevo di poter moderare la cattiveria, io. Il mondo no. Non lo toccavo spesso, ma solo per paura di distruggerlo. Amavo i suoi baci, le sue carezze. Ne avevo ricevute tante sul petto, sul ventre, sulla schiena. Ma era da tanto che non baciavo qualcuno sulle labbra e sul cuore. Era stato difficile tenere il pennello tra le mani, quando era steso sul divano da casa mia, nudo. Non era il primo ragazzo che vedevo senza vestiti ma con lui, era sempre così maledettamente diverso.

Le luci dei lampioni mi facevano compagnia, insieme alle lacrime.
Ancora? Sì, ancora.

Mancavano cinque minuti di strada ed ero disperato. La chiamata di Robert m'aveva tolto litri e litri di sangue e sorriso. Me ne avrebbe tolto ancora molto la strada ed il traguardo.
La mia esperienza m'aveva insegnato che il passato va via e si ripresenta rare volte. Perché non c'avevo pensato prima? Mi sarei dovuto aspettare tutto quanto.

Non vidi un gradino ed inciampai, battendo rovinosamente il dorso della mano destra. Un piccolo rivolo di sangue venne fuori. Una donna magra, di forse trent'anni si chinò per aiutarmi ma non riuscivo a rispondere alle sue domande. Continuavo ad angosciarmi: andò via e la cercai con lo sguardo, come fanno i disperati. Poi mi rialzai, imponendomi di calmarmi. Desiderai essere in un film a lieto fine e mi ripetei che non tutto era andato perduto.

Un funzionario del The Old Operating Theatre Museum and Herb Garret mi chiese se volessi entrare ma mi feci spazio tra i due furgoni dei Randby electrical services per evitarlo e non consumare la mia resistenza.
Gli edifici non erano nuovissimi ma la loro altezza mi sconvolgeva. Ci passavo sempre ma mai avrei pensato di doverci entrare con quell''ansia.

Robert mi aspettava fuori, affranto. Lui più di me.
«T'ho chiamato appena ho saputo.»
«Zitto.»
«Scusami Andreas, io non potevo ...»
«Stai zitto.» mi fermai di scatto e con l'indice, gli ordinai di andare avanti. «Fammi strada.»

Entrammo nel Guy's Hospital con la paura di chi entra in una trincea durante il cambio.
«Terzo piano.» vidi l'indicazione.

Un brivido.

In ascensore non fiatammo. C'era un uomo anziano, sulla settantina, che ci fece spazio per passare e ci liquidò con uno sguardo di sdegno (non) immotivato. La coda era breve e piena di sospiri.

Un ragazzo ed una ragazza si tenevano la mano davanti a me. Pensai che, nonostante uno dei due dovesse avere la colpa, se non del problema, almeno dell'ansia dell'eventualità, erano insieme a stringersi.
Sentii subito l'assenza di Michael e desiderai tenergli la mano.

Scacciai  il pensiero, muovendo la testa. Ma come quando si scuote un salvadanaio con la fessura verso il basso, venne fuori il costo del mio passato direttamente dai miei occhi in forma umida e salata.

«Prego.» Il dottore mi fece cenno di entrare.
Avevo così tanto bisogno di lui.

Non c'era altro da fare che vagare sotto le stelle. Del West, di solito.Where stories live. Discover now