Hang on, help is on the way (parte I)

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«La colazione è pronta! Svegliatevi.» mia madre era già in piedi da tempo, per questo aveva la forza di gridare. Io, per parte mia, ero assonnato fino all'ultima fibra del corpo: avevo dormito poco e male a causa dei pensieri e del martellante mal di testa. Presi la coperta dal lembo e la tolsi rapidamente, con violenza. Non avevo voglia di caffè. Desideravo andare a scuola, quelle quattro ore sarebbero state pesanti ma al termine di esse mi sarei detto felice.
Barcollando mi diressi in cucina. La tavola era apparecchiata e la solita abbondante quantità di cibo preparata da mia madre faceva capolino dai piatti colorati. Ci eravamo abituati alla classica colazione inglese, sebbene la nostra prevedesse the, olive, labneh e manaish.

Il Libano mi mancava tanto. Non era a Londra che avevo imparato ad andare in bici, che avevo letto la mia prima poesia. Beirut era una donna dorata.
Io e la mia famiglia trascorrevamo tutte le domeniche nel distretto di Sanayeh, camminavamo a piedi e raggiungevamo René Moawad Garden: uno spettacolo di colori e di vita. Avevamo provato tutte le panchine del parco io e le mie sorelle; insieme correvamo come forsennati, facendo impazzire la mamma che era costretta a rincorrerci. Quel parco era la causa primaria delle sgridate che ricevevamo.

Ma era anche la fonte primaria della nostra libertà.

Londra era bella, bellissima. Ma era tutto così organizzato e perfetto che pareva a tratti falso.
Avevamo lasciato Beirut per la guerra maledetta. Quando parlavo del mio luogo di infanzia mi sentivo un personaggio di Joyce: ogni ricordo, ogni apparizione era una conferma del mio stato di stallo.

Il bacon era cotto bene e l'orologio correva.
Dopo aver mangiato, corsi in bagno prima che vi entrasse una delle donne: il trucco richiedeva molto impegno e tempo. Di solito davo la precedenza a loro, ma oggi era diverso.
Oggi mi importava della scuola.
La doccia fu più lunga del previsto. Avevo anche lavato i miei capelli perché fossero impeccabili. Mi ritrovai a frugare nell'armadietto di mia sorella Susanna: estrassi una serie di flaconi a me ignoti, colorati e pesanti. Quante diavolerie c'erano lì dentro?  Un anti-età, un anti-cellulite, un anti-brufoli. Non ne avevo bisogno.
Cercai ancora e finalmente trovai una lozione profumata con cui cosparsi la mia chioma riccioluta ancora bagnata. Subito fui inondato dall'esatto odore che avrei voluto sentire sulla pelle e sui capelli di una persona per definirla interessante.
Con cura ed attenzione li asciugai ed acconciai.
Poi passai al viso. Intonavo "Life on Mars?" di Bowie ed intanto spalmavo crema idratante sul mio incarnato. Mi osservai allo specchio e pensai che un po' la situazione s'era volta in bene.

Susan non doveva sapere nulla, nessuno doveva sapere nulla. Feci sparire ogni traccia di quell'inconsueta routine mattutina ed indossai la divisa della scuola che, fortunatamente, mi dava un poco di colore.
Con lo zaino in spalla e la giacca sull'avambraccio, salutai mia madre e le mie due sorelle che si dipinsero subito un grande punto interrogativo sul volto, guardandosi. Cercai di conservare l'espressione malinconica e seccata che mi contraddistingueva, alle otto di mattina come alle otto di sera, ma non era per nulla facile. Corsi via ed appena ebbi chiuso la porta d'ingresso, iniziai a ridere di gusto, come un pazzo.
Erano le otto meno sette, i tempi erano ottimi.
Non ci mettevo più di cinque minuti, del resto la scuola era dietro l'angolo. Ma avevo una vita talmente sociopatica che calcolavo anche il tempo da trascorrere con i miei compagni fuori dai cancelli, prima del suono della campana; e non doveva superare di solito, i pochi secondi.

Erano tutti lì fuori, assiepati. Emettevano suoni vari, di quelli potevo distinguere risa e lamenti.
Ian era lo sbruffone della Regant High School. Brutto come il debito e – a dir la verità – neanche misterioso o minimamente interessante, aveva uno stuolo di gallinelle che lo seguivano ovunque. Anche e soprattutto in bagno. Avevo avuto molti scontri verbali con lui ma la mia opinione sulla sua persona era talmente bassa che si erano conclusi sempre con un "vaffanculo" privo di riparabilità e riparazione alcuna.
David era bello. Ma non avevo mai pensato seriamente a lui: la sua bellezza era fortemente invalidata dalla sua volgare stupidità. Quella mattina mi salutò, dandomi una pacca sulla spalla e con un movimento repentino, sfiorò i miei pantaloni, come si fa tra ragazzi etero.
Ma io non lo ero. Fui profondamente infastidito e la campana ebbe lo stesso potere di una benedizione divina.
Ero seduto vicino a due ragazze, Ally e Francesca, che aveva origini italiane. Erano entrambe bellissime, l'una l'opposto dell'altra. Ally era bionda, alta, magra. Aveva due occhi enormi, che puntualmente contornava con matite nere: nonostante fossero azzurri, tanto azzurri, quella mattina mi parvero più affievoliti del solito.

Non c'era altro da fare che vagare sotto le stelle. Del West, di solito.Where stories live. Discover now