Chapter 3

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Non ho chiuso occhio questa notte a causa dei continui ripensamenti sulle parole del direttore Cowell per quanto riguarda il comportamento di Louis: senza sosta ho continuato a rigirarmi nel letto corrucciato, non sapendo bene nemmeno io come sistemarmi per trovare una posizione decente e finalmente riuscire ad addormentarmi. Ho anche tentato di provare ad affaticarmi ulteriormente utilizzando il computer, ma tutto quello che sono riuscito a fare è stato continuare, imperterrito, a ricaricare la pagina delle email del lavoro nella speranza di trovare il curriculum di Louis, ma invano. Conto, però, soprattutto oggi che ho la giornata particolarmente piena, di osservare meglio il comportamento di Louis e farmi un idea più specifica sulla modalità da scegliere per parlargli senza che fugga via da me.

Sbadiglio appena scendo dall'auto, come al solito parcheggiata accanto al parchetto, e appena chiudo la portiera porto una mano a coprire la bocca nel tentativo di nascondere uno sbadiglio. Non ho fatto nemmeno colazione, anzi, a dir la verità, ho bevuto solo una tazza di caffè, ma dubito sia bastato.

A passo lento mi dirigo verso le enormi scalinate in marmo bianco dell'Istituto, ed è lì che lo vedo. Louis. Louis con la sua solita aria misteriosa, una mano infilata nella tasca dei jeans scuri che fasciano in maniera perfetta le sue gambe e l'altra impegnata a reggere tra due dita il mozzicone di una sigaretta fumata già a metà. Mi chiedo se stia aspettando qualcuno, se nel frattempo abbia conosciuto qualche collega universitario dato che è sempre da solo. E so che dovrei lasciarlo in pace, ascoltare le parole del direttore Cowell e pensare solo ad insegnare la mia materia, ma proprio non ci riesco a non avvicinarmi cautamente a lui, cercando in qualche modo di attirare la sua attenzione.

«Buongiorno, Louis» inizio, naturalmente gentile e cordiale. Lui però non mi guarda, anzi, continua a tenere il capo abbassato, ed io mi lascio sfuggire un sospiro di rammarico. Sembra quasi che abbia persino paura di parlare, e il suo petto che si abbassa e si alza in maniera irregolare mi fa pensare stia per scoppiare in un pianto disperato. Ogni mio dubbio, però, sparisce quando finalmente solleva lo sguardo e punta i suoi bei occhi cerulei nei miei: questi ultimi sono acquosi, lucidi, dalle pupille dilatate all'inverosimile.

«Louis..cosa succede?» domando allora, preoccupato, posando una mano sulla sua spalla. Lui si passa una mano sul viso concentrandosi soprattutto  sotto gli occhi, probabilmente per rimuovere le ultime lacrime versate e rimaste incastrate nelle sue ciglia castane, come gocce di rugiada sui petali di una rosa appena sbocciata.

«Non credo sia di suo interesse sapere come stia, professore» risponde poi, freddo come una lastra di ghiaccio. Con due dita si sistema il cappuccio della felpa - questa volta azzurra - sulla testa, e mi chiedo se non sia un gesto fatto per cercare di proteggersi da questo mondo deludente e vuoto. Non lo biasimerei, se così fosse.

«Mi interessa la salute di tutti i miei studenti, invece, Louis» cerco di fargli capire che tutto quello che desidero è solo che si confidi con me, che mi dica come mai sembri sempre sul punto di scoppiare a piangere. «Puoi contare su di me se hai bisogno di parlare o di sfogarti, non ti giudicherò».

«Grazie, ma non ho bisogno della sua compassione, professore. Non ho bisogno di sfogarmi, né tantomeno parlare con lei. Voglio solo rimanere da solo, com'è giusto che sia e com'è sempre stato» dice, ma non sono sicuro abbia detto la verità. Le sue mani tremano e avverto l'impulso di afferrargliele e stringerle fra le mie fino a quando tutto non passerà, ma non lo faccio perché rischierei soltanto di peggiorare la situazione. Mi distrugge il cuore vederlo ridotto in questo modo, ma mi distrugge di più sapere che io non possa fare assolutamente nulla per cambiare le carte in tavola.

«Mi lasci in pace, la prego» e queste parole Louis le sussurra così piano che faccio quasi fatica a sentirle. Il suo petto torna ad abbassarsi e a rialzarsi in maniera irregolare, ma stavolta non faccio niente per impedire alle lacrime di bagnare nuovamente i suoi occhi. Anche se a malincuore, lo lascio andare. Forse è giusto così. Ma non ho nessuna intenzione di arrestare la mia corsa. Prima di entrare in aula per iniziare la mia giornaliera lezione di letteratura inglese, decido di passare in aula professori. Quando raggiungo la stanza, insieme ad un altra razza di caffè, accendo il computer per controllare se il direttore Cowell abbia esaudito la mia richiesta di mandare per email il curriculum di Louis. Sì, l'ha fatto. Senza alcuna esitazione, apro il file. La prima cosa che salta subito all'occhio è la fotografia inserita all'interno della tessera dello studente di Louis, che lo ritrae probabilmente poco più piccolo della sua attuale età, con un cappellino verde posato sulla testa e l'ombra di un sorriso sulle labbra. Sorrido. Scendendo poco più sotto, leggo tutte le informazioni inerenti al suo giorno di nascita e il suo luogo di residenza: quest'ultima decido di appuntarmela su un post-it giallo, anche se dubito fortemente potrà servirmi in futuro. Sollevo nuovamente lo sguardo, appena concludo di scrivere l'indirizzo con la matita, ed è lì che lo noto. Sulla destra, accanto alle informazioni personali, la didascalia "espulso dalla Columbia University, Harlem, New York" mi fa quasi venire un mancamento. Non può essere vero. Convinto di essere stato vittima di un allucinazione rileggo con più attenzione non solo la didascalia appena citata, ma anche quelle a venire, ma non cambia nulla: il testo rimane sempre lo stesso, ed io mi ritrovo a deglutire un gruppo in gola gigantesco.

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