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Il familiare odore di nicotina riesce a rilassarmi solo per qualche secondo, il tempo racchiuso tra l'attimo in cui aspiro e quello in cui lascio uscire tutto fuori in una nuvoletta di fumo.

Ha un aroma diverso, un retrogusto amaro e malinconico.


«Coltivatore di riso?»

«Orribile.»

«Chong?»

«Osceno.»

«Generale Shang?»

Le lanciai un'occhiata di traverso.

«Lo sai vero che non è carino come credi?» le chiesi senza nota di accusa, portandomi alle labbra la sigaretta.

«Non vedo dove sia il problema.» ribatté incrociando le gambe e sistemandosi meglio sulla panchina. «Sto solo cercando un soprannome che ti si addica.»

«Sorvolando sull'inutilità di questa cosa,» risposi, «tu stai cercando un soprannome che si addica alle mie origini, non a me come persona.»

Sorpresa e offesa da quell'accusa, aprì la bocca per ribattere ma tutto quello che uscì fu un sospiro infastidito dalla veridicità delle mie parole.

Per rassicurarla le soffiai addosso la nuvola di fumo e vedere la sua espressione irritata e indispettita mi fece sorridere.

«Scusa...» mormorò in un borbottio orgoglioso.

A volte somigliava davvero ad una bambina.

«Non lo stavo facendo con-»

«Lo so.» la interruppi, tranquillizzandola.

Lei mi scrutò per qualche secondo, un po' dubbiosa dalle mie parole, ma alla fine cedette in un sorriso ancora intriso di scuse.

«E poi i soprannomi devono nascere da qualcosa di significativo.» aggiunsi pensieroso, cercando di rimettere a posto le cose.

Isabel sembrò rendersene conto dal modo in cui sospirò indispettita.

Era un po' inquietante il fatto che stessi imparando a distinguere le sue espressioni e le sfumature dei suoi sospiri, ma la cosa non mi stupiva neanche tanto.

Il vederci ogni giorno stava iniziando a mostrare i suoi effetti. Si stavano iniziando anche a mescolare i nostri vocabolari, usando alcuni modi di dire così lontani dai nostri più abituali e familiari.

Era passato quasi un mese da quando avevamo preso ad incontrarci al parco nel primo pomeriggio dopo pranzo.

Dopo la nostra ultima chiacchierata sulla sua famiglia e il suo sentirsi quasi sempre indietro rispetto al mondo, sorprendentemente il giorno dopo ci siamo ritrovati allo stesso posto, alla stessa ora.

«In realtà, speravo che venissi...» aveva ammesso una volta, molto più avanti, in un sussurro imbarazzato.

Per quanto fossi sorpresa dalla sua ammissione, una parte di me – probabilmente quella gonfia di ego – lo aveva quasi intuito.

Era seduta senza aver poggiato la schiena, con il busto in avanti, il mento sorretto pigramente da un palmo della mano il cui gomito poggiato sulla coscia. Sembrava in attesa di qualcuno ma, allo stesso momento, sembrava pronta ad alzarsi e andarsene, quasi fosse consapevole che la sua attesa razionalmente fosse solo una cosa stupida.

Le volte precedenti nessuno dei due aveva lasciato intendere di voler rivedere l'altro. Per quanto io per primo avrei voluto scriverle per chiederglielo – Luke era riuscito a trovare il suo profilo Instagram.

Non lo avevo fatto per due motivi.

Il primo era perché non ci conoscevamo. Era stupido scrivere ad una persona appena conosciuta con lo scopo di chiederle di diventare il mio psicologo personale a tempo pieno e gratuitamente.

Twelve Minutes// Calum Hood Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora