Capitolo 19

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La sala d'attesa era gremita di gente. In quel giorno erano fissati molti interventi e i parenti dei pazienti erano tutti uniti ad aspettare che qualche dottore potesse dar loro una lieta notizia. Mi sedetti su di una sedia di metallo ed osservai ognuno di quei volti presenti nella stanza. Avevano più o meno la stessa espressione preoccupata. Mi colpì una coppia di anziani, seduti l'uno accanto all'altra. Si tenevano la mano e preoccupati avevano entrambi lo sguardo basso. Mi chiesi chi stavano aspettando. Un figlio o una figlia, forse.

Mi sporsi in avanti e poggiai gli avambracci sulle ginocchia. Intrecciai le mani e le sfregai nervosamente. Davide aveva il giro visite quella mattina e quindi non potei vederlo. Sospirai più volte cercando di calmarmi. Il chirurgo mi spiegò che l'intervento sarebbe durato almeno tre o quattro ore ed in quel momento erano passati solo 30 minuti.

Afferrai il cellulare dal taschino dei jeans e sfogliai i vari messaggi. Ce n'era uno di Davide che mi aveva mandato poco fa e che non avevo letto.

Spero che vada tutto bene. Non appena avrò finito il turno verrò da te. Ti amo.

Sorrisi nel leggere le sue parole. Arrossii leggermente, quindi misi via il cellulare e ripresi a guardarmi attorno. Mi colpì una coppia molto giovane. Erano vicini l'uno all'altra e si tenevano per mano. Mi chiesi se fosse un loro figlio a dover essere operato. Avevano entrambi la stessa espressione turbata. Ogni tanto lei guardava lui, immerso nei suoi pensieri e, con una mano lo accarezzava dolcemente destandolo solo per un attimo, per poi sprofondare ancora una volta in un qualche pensiero.

La TV nella sala d'attesa era accesa, ma sembrava che nessuno la guardasse davvero. Qualcuno fissava lo schermo, ma nonostante le brutte notizie di cronaca che scorrevano sul monitor, nessuno aveva una reazione. Qualcuno si perdeva nei ricordi del proprio caro, magari focalizzandosi su ciò che gli aveva detto la sera prima dell'intervento o l'ultimo viaggio che avevano fatto assieme.

Mi persi in queste fantasie e non mi accorsi che una ragazza, forse poco più grande di me, si avvicinò alla mia sedia.

«Ciao» mi disse con un lieve sorriso «posso sedermi?»

«Si, certo» le dissi indicando la sedia accanto a me.

«Sto aspettando il mio fidanzato» mi disse sedendosi accanto a me «si è fratturato una gamba e gliela stanno mettendo a posto»

«Capisco...» le dissi appoggiandomi allo schienale della sedia.

«Tu chi aspetti?»

«Mia madre...» le dissi omettendo volutamente la causa dell'intervento. Non avevo molto voglia di parlarne.

«Ti va di prendere un caffè insieme?» mi disse avvicinandosi alla mia spalla.

«No grazie, sono troppo nervoso per bere del caffè. Aspetterò qui» le dissi sorridendole forzatamente.

«Ah ma se vuoi, puoi prendere anche qualcosa di diverso dal caffè» disse le ridacchiando appena.

«Ehm... no grazie. Sto bene così.»

Lei fece spallucce e si appoggiò allo schienale della sedia, allontanandosi da me. Rimase in silenzio per un po', alternando lo sguardo tra i presenti per poi tornare a guardare me. Ricominciò a parlarmi. Sembrava un fiume in piena. Mi disse qualsiasi cosa della sua vita ed io annuivo e le sorridevo cercando di non essere maleducato. Mi raccontò della sua famiglia, di quello che aveva studiato, di come aveva conosciuto il suo fidanzato e di come si fosse rotto la gamba sul lavoro. Per quanto ero teso, ogni cosa che lei mi disse la cancellavo nel giro di cinque minuti. Quella ragazza, però, fu come una manna dal cielo, perchè senza accorgermene passarono già due ore.

*   *   *

Il suo fidanzato uscì dalla sala operatoria dopo tre ore d'intervento. Lei accorse subito al suo letto e gli strinse forte la mano, mentre veniva trasportato nella stanza. Rimasto solo, mi decisi ad alzarmi dalla sedia. Mi diressi verso il corridoio. Le infermiere correvano da una stanza all'altra con una flebo fra le mani o con un flaconcino di medicinale. Era molto diverso il reparto di chirurgia generale da quello di oncologia. Quest'ultimo era calmo e abbastanza silenzioso. In quel corridoio invece l'attività era frenetica. Mi appoggiai distrattamente al muro e continuai ad osservare il corridoio. Facendomi sobbalzare, un'infermiera mi si avvicinò e, toccandomi il braccio, mi chiese se fossi un parente della signora Ferretti. Annuii silenziosamente guardando il volto neutro dell'infermiera.

«Può seguirmi per favore, il chirurgo vorrebbe parlarle» mi disse facendomi segno di seguirla.

«L'intervento è finito? Com'è andato?» le chiesi ansioso seguendola verso lo studio del medico.

«Le dirà tutto il medico» mi disse seccamente e continuò a camminare.

Seguendo un corridoio adiacente a quello che stavo osservando, in pochi minuti arrivammo davanti allo studio del chirurgo.

Varcata la soglia, lo vidi in piedi accanto alla scrivania che mi attendeva. Il suo volto era serio e non mostrava alcuna espressione. L'infermiera richiuse la porta dietro di me, che mi avvicinai a lui. Dopo avergli stretto la mano, ci sedemmo entrambi l'uno di fronte all'altro. Dopo un attimo di silenzio, il dottore iniziò a parlarmi.

«Mi dispiace, ma... non è stato possibile togliere il tumore» mi disse in tono inespressivo.

Sgranai gli occhi e serrai la bocca. Non dissi nulla. Non ce la facevo. Il cuore mi si fermò nel petto, per poi riprendere a battere all'impazzata.

«Purtroppo il tumore si è come aggrappato e attorcigliato alla vena principale e non ci è stato possibile rimuoverlo» mi disse continuando ad avere lo stesso tono e viso inespressivo «Durante l'intervento ha avuto delle complicazioni. Il suo cuore si è fermato una volta e l'abbiamo rianimata. Adesso è in rianimazione, ma purtroppo non c'è più nulla da fare...»

Strinsi le mani come a formare due pugni, che sfregai nervosamente sui jeans. Non riuscii a dire nulla. Il mio cuore continuava a battere forte ed il respiro mi si fece sempre più corto. Volevo solo andare via di lì, scappare da qualche parte e non vedere nessuno. Quindi mi alzai e con un fil di voce salutai e ringraziai il dottore. Mi richiusi la porta dietro di me ed avanzai verso il corridoio deserto. Le gambe non riuscivano a reggermi. Barcollavo. La vista mi si annebbiò per qualche attimo. Riuscii ad intravedere una panchina di metallo. Allungai il braccio tremante. La raggiunsi. Poggiai entrambe le mani sulla panchina ed il freddo del metallo mi fece rabbrividire. Delle piccole gocce bagnarono le mie mani. Tirai a fatica una mano verso la guancia e la trovai bagnata. Sollevai il volto e notai la porta del bagno proprio vicino alla panchina. Mi staccai dalla panchina e raggiunsi il bagno. Chiusi la porta a chiave e mi lasciai cadere contro il muro. Urlai. Piansi. I singhiozzi erano così violenti da farmi male il petto. Iniziai a battere il pugno contro il muro. Più forte. Sempre più forte. Fuori dal bagno, qualcuno aveva udito le mie urla e, allarmatosi, bussò alla porta.

«Andate via!» gridai ancora verso la porta del bagno.

Cercarono di aprire la porta, ma essendo chiusa dall'interno, gli risultò impossibile. Continuai a gridare di andare via da lì, che volevo restare solo. Fra tutte le altre, sentii una voce che mi sembrava famigliare e che mi chiamava. Sgranai gli occhi nel riconoscere la voce di Davide. Barcollando, raggiunsi la porta e, togliendo il chiavistello, la aprii. Davide mi guardava preoccupato, mentre rimanevo in piedi davanti a lui. Potei notare la folla che si era radunata attorno a quel bagno, ma ne fui solo disgustato. Tornai a guardare Davide che, con un rapido movimento, mi abbracciò e richiuse la porta del bagno dietro di sé.

Affondai il volto nella sua spalla e continuai a piangere, avvolto dalle sue braccia. Le mie, inermi, pendevano lungo i miei fianchi.

«Da-Davide...»

«Lo so... il chirurgo mi ha avvisato» disse accarezzandomi teneramente i capelli.

«Cosa... cosa devo fare? Che cosa faccio adesso?» gli chiesi fra un singhiozzo e l'altro.

«Adesso devi solo piangere e stare qui con me. Sfogati Alessandro, sfogati... ne hai bisogno»

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