Capitolo 20

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Davide mi condusse nel suo ufficio che ancora piangevo. Mi fece accomodare sulla poltrona e lui si sedette in quella accanto a me. Mi accarezzò il capo e la guancia, asciugandone le lacrime che non riuscivo proprio a fermare. Mi rimase accanto senza dire nulla. Mi considerai fortunato ad averlo vicino in quel momento.

«Quando potrò vederla?» chiesi con la voce che mi tremava a Davide.

«La rianimazione apre alle diciotto. Non potrò accompagnarti, perché è permesso entrare solo ai parenti stretti» mi spiegò Davide, prendendomi la mano «Ce la fai?»

Annuii abbassando lo sguardo e Davide prese ad accarezzarmi i capelli.

«Cosa succederà ora?» gli chiesi, tornando a guardarlo in volto.

«Il chirurgo mi ha spiegato che hanno tentato di rimuovere la massa, ma che non è stato possibile. Inoltre sembra che abbia avuto qualche complicazione durante l'intervento, che l'hanno resa molto debole» mi spiegò Davide, tenendomi ancora la mano e stringendola via via sempre più forte «Ale, tua madre non respira più da sola...»

Restai in silenzio e strinsi a mia volta la mano di Davide. Abbassai lo sguardo. Sentii gli occhi bruciarmi ed il petto farmi male. Era come se, ogni minuto che passava di quella dannata giornata, ricevessi una coltellata al cuore.

«Morirà... vero?» gli chiesi con un fil di voce.

Davide non mi rispose. I suoi occhi erano carichi di tristezza, mentre mi guardava. Si sporse verso di me e, allargando le sue braccia, mi cinse le spalle e mi baciò il capo, che avevo debolmente abbandonato sulla sua spalla.

*   *   *

Alle diciotto in punto le infermiere della rianimazione aprirono le porte ai famigliari, che erano in attesa di vedere i propri cari. Ci spiegarono come dovevamo comportarci e il camice che tutti dovevamo indossare prima di entrare nelle stanze. Indossammo il camice verde e le protezioni per le scarpe ed entrammo tutti in un corridoio strettissimo. Poco prima di entrare nella stanza di mia madre, una dottoressa dall'aria gentile mi spiegò la situazione clinica di mia madre.

«Quando entrerà nella stanza la troverà intubata ed incosciente. Questo perchè la paziente non può respirare autonomamente. Le sue condizioni sono per ora stabili» concluse la dottoressa ed io varcai la soglia della stanza dove riposava mia madre.

Il respiro mi si bloccò nell'istante stesso in cui la vidi: come aveva detto la dottoressa, era intubata e dormiva, dall'addome, coperto da un pesante lenzuolo, fuoriusciva ogni sorta di tubo, ciascuno attaccato alla propria sacca. Un bip rompeva il silenzio che si era creato nella stanza, mentre con passi tremanti mi avvicinai a lei incosciente. Le presi la mano, che inerme poggiava sul materasso e l'accarezzai dolcemente. Sentii il petto dolermi. Abbassai il capo ed iniziai a piangere silenziosamente. Tremavo, mentre poggiavo il viso sulla sua mano, bagnandola di lacrime. Mi sentii completamente impotente. Avrei voluto fare qualcosa, avrei voluto salvarla, ma non potevo fare nulla.

Le stringevo la mano quando all'improvviso il bip della macchina che misurava le pulsazioni si fece sempre più insistente ed il monitor divenne rosso. Sollevai il volto, alternando lo sguardo incerto sui vari macchinari a cui era attaccata mia madre, ma non capii cosa stesse succedendo.

La dottoressa, con cui avevo parlato prima, entrò nella stanza allarmata. Un'infermiera mi invitò ad allontanarmi dal letto.

«No, voglio restare!» replicai non lasciando la mano di mia madre.

«La prego, altrimenti i dottori non potranno intervenire» mi disse, afferrandomi per un braccio per poi quasi trascianarmi al di fuori della stanza.

Mi condusse nello stretto corridoio vicino la porta della stanza. Vidi altri due medici correre per il corridoio ed entrare nella camera. C'era una gran confusione di voci, che non riuscii a capire ciò che dicevano.

Mi sporsi lentamente dalla porta. Affacciandomi sulla stanza riuscii a vedere i medici intorno mia madre, che cercavano di rianimarla. Il bip che prima era martellante adesso era diventato un suono continuo. Il cuore mi si fermò nel petto, mentre con nervosismo, stringevo lo stipite della porta a cui mi stavo appoggiando. I miei occhi seguivano le movenze frenetiche dei medici e delle infermiere che cercavano di rianimare mia madre. All'improvviso sembrò che la frenesia, da cui prima erano stati colti, li abbandonasse man mano che quel maledetto monitor disegnava una linea continua.

Perché non fanno niente? Cosa sta succedendo?

La mia mano, involontariamente, strinse ancor più lo stipite della porta, mentre già le lacrime cominciarono a scendere.

Uno dei medici abbandonò i guanti, buttandoli con violenza nel cestino, poi si voltò ed uscì dalla stanza, guardandomi fugacemente, per poi scomparire in fretta in un'altra stanza.

La dottoressa, con cui avevo parlato prima di entrare nella stanza, si voltò guardandomi con una enorme tristezza. Abbandonando i guanti nel cestino, a grandi passi mi venne incontro. Le sue labbra si dischiusero per iniziare a parlare, ma non fuoriuscì nessun suono. Quindi si schiarì la voce e iniziò a parlarmi.

«Mi... mi dispiace. Le complicazioni avute durante l'intervento erano più gravi del previsto. Abbiamo fatto il possibile per riuscire a rianimarla, ma non c'è stato nulla da fare. Sua madre è morta.»

Sentii scorrere le lacrime sulle mie guancie, la mia bocca era semi aperta, ma non emisi nessun suono. Restai fermo, immobile, guardando ancora la dottoressa, che a sua volta continuava a guardarmi. Le braccia, inermi, mi caddero lungo i fianchi.

«La lascio solo. Può rimanere con lei per altri pochi minuti, dopo la porteremo via» mi disse la dottoressa, mentre usciva dalla stanza.

Annuii silenzioso alle sue parole, mentre le mie gambe, che sembrasse dovessero cedere da un momento all'altro, mi condussero al letto dove giaceva mia madre. Presi ancora una volta fra le mie la sua mano. Era fredda. Guardai il suo viso. Ormai non era più intubata e potevo guardarne ogni lineamento. Era così pallida. Sembrava così fragile.

«Mamma...» dissi in un sussurro, mentre mi sporgevo verso la sua fronte e la baciavo.

Restai a guardarla in assoluto silenzio. Sentii in lontananza il brusio ed il chiacchiericcio degli altri pazienti e dei loro famigliari. Poi dei passi si avvicinarono a me.

«Dobbiamo portarla via...» mi disse un'infermiera avvicinandosi.

A malincuore mi allontanai da lei e lasciai andare la sua mano. Coprirono il suo volto con il lenzuolo, mentre staccavano tutti i cavi e i tubi a cui era attaccata. Tolsero quindi il freno al letto e, con un fastidioso cigolio, la condussero fuori dalla stanza.

Le mie gambe non ressero più la pressione. M'inginocchiai sul pavimento. Mi sentii vuoto ed un enorme senso di solitudine m'investì, non lasciandomi respirare correttamente.

Perché? Perché mi hai lasciato? Ho bisogno di te!

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