CAPITOLO 9

15 1 1
                                    

Credo di non aver mai corso così veloce in vita mia. Sono le 12:35 e io non sono ancora al ristorante. Non che mi interessi arrivare puntuale ma sono sicuro che in questo momento mio padre stia chiedendo in continuazione a mia madre dove diamine mi fossi cacciato. Anche se devo dire che il solo fatto di arrivare e trovarlo con un cipiglio in viso mi fa nascere un sorriso spontaneo. Trovo la strada indicatami da mio padre nel biglietto di stamattina e subito noto il ristorante. È gigantesco. Sarà alto quasi come un palazzo di 4 piani e largo quanto una nave da crociera. Bhe, c'era da aspettarselo da loro. Sono in ritardo di otto minuti e sono sicuro che mio padre mi ucciderà con lo sguardo una volta entrato. Mi armo del mio sorriso falso migliore ed entro. Noto subito il gruppetto e devo dire che tra tutti i presenti, quello è il tavolo meno pieno. Quello in fondo alla sala ospita, ad occhio, almeno cento persone. Come immaginavo mio padre sta cercando di sviluppare la tecnica dello sguardo laser per potermi incenerire in una sola mossa ma non comprende che è solo un povero essere umano. Inizio ad avvicinarmi al tavolo e sposto lo sguardo su mia madre che mi sorride come solo lei sa fare.  Mi siedo tra lei e Amanda. Spero almeno che lei non acquisisca lo stesso senso di umorismo che possiede suo fratello George perché altrimenti potrei solo fare le condoglianze alla famiglia Mclain.
<<Caro Johnathan, per caso hai perso la cognizione del tempo mentre passeggiavi tra i campi verdi saltellando allegro e spensierato con un cesto pieno di fiorellini in mano?>> E, ovviamente, il tavolo scoppia in una fragorosa risata.
<<Vedi, Albert, forse è meglio saltellare tra i campi e raccogliere fiorellini, invece che cercare con lo sguardo una possibile preda che entrerà nel mio letto contro la sua volontà.>> Lo sentite? Si, lo sento anch'io. All'improvviso tutto il tavolo si è zittito e si riesce solo a sentire mia madre che tossisce, mascherando così una risata e mio padre che digrigna i denti e stringe i lati del tavolo. Dopo quelli che sembrano cinque minuti ritornano tutti a chiacchierare animatamente come se niente fosse successo e io vengo semplicemente ignorato e non posso essere più felice di così. La mia mente viene ancora inondata dai ricordi della scorsa sera.

Dopo averle chiesto come stesse ho aspettato qualche attimo nella speranza di una sua risposta ma questo non avviene e decido, così, di sedermi ai piedi di uno dei due alberi che si trovano, uno accanto all'altro, nella parte destra dell' "entrata" di quel luogo. La distanza ora è diminuita ma, nonostante ciò, lei non osa parlare o spostare lo sguardo dai miei occhi. Restiamo così per un po', semplicemente a guardarci nel profondo dell'anima cercando di capire uno qualcosa dell'altro.
<<Come stai?>> Cerco ancora una volta di spazzare via quel silenzio assordante ma, come era successo già, non ricevevo risposta. Così provo con un altra domanda.
<<Come ti chiami?>> A quella domanda il suo sguardo diventa impassibile, quasi come se fosse diventata all'improvviso di ghiaccio, ma la vedo avvicinarsi a me. Si siede ai piedi dell'altro albero quindi siamo lontani circa due metri. Solo ora mi accorgo che sta piangendo. Non l' ho sentita singhiozzare e non lo fa neanche ora, non trema, non batte ciglio. È quasi inquietante.
<<Perché piangi?>> Continua a a farlo silenziosamente, quasi avesse paura di farsi sentire. Non risponde, di nuovo, si volta dalla parte opposta della mia e allunga la mano come se avesse appena afferrato qualcosa. Si volta e nella sua mano destra noto un bastone, uno di quelli che tireresti al tuo cane per giocare al riporto con lui. Avvicina la punta di questo bastone al terreno e scrive "Olvia". La guardo confusa e poi, forse, capisco.
<<Olvia è il tuo nome?>> Lei annuisce e si asciuga le lacrime. Sembra una bambina mentre lo fa: ha i pugni chiusi e si sfrega gli occhi mentre tira su col naso. È così dolce. Dopodiché riprende il bastone tra le mani e scrive: "Tu come ti chiami?"
<<Il mio nome per intero è Johnathan Robert Young, ma tutti mi chiamano John.>>
"Quanti anni hai?"
<<Diciassette e tu?>>
"Sedici."
<<Perché eri così vicina al bordo di quel dirupo?>> Bene, John, sei ufficialmente uno stupido. Lei, ovviamente, non risponde. Rimaniamo così. Uno accanto all'altro senza parlarci ma ascoltandoci. Dopo un po' il telefono squilla. È mia madre che chiede mie notizie, sembra preoccupata. Caspita è l'una.
<<Sarebbe meglio che vada, adesso. Si è fatto tardi.>>
"Torni domani?" Dire che questa domanda mi ha sorpreso è dir poco. Incrocio il suo sguardo, sembra disperato. Quasi bisognoso ma non riesco a capire di cosa. Le rispondo con un piccolo sorriso.
<<Certo. Domani sarò qui.>> Sembra quasi sollevata dalla mia risposta. La saluto con un sorriso al quale risponde timidamente ma sinceramente. Torno in albergo con un sorriso e mi addormento con un sorriso.

La Ragazza Del BurroneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora