II

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Capitolo Secondo

Due settimane dopo, non era cambiato niente. Dopo la “terribile notizia” (per Becky sembrava peggio di una minaccia di morte, ve l’assicuro) tutto sembrava tornato alla normalità. Anzi, avevamo addirittura smesso di parlarne. Come se non fosse vero.


Alla stazione, il giorno della partenza,  c’erano tutti (mamma, papà, Becky, e la vicina rompiscatole vedova a cui era morto un figlio, sempre che l’avesse avuto davvero e non se lo fosse inventato). La scuola distava un paio d’ore da casa, ed era praticamente a ridosso della ferrovia. Anche con due fette di prosciutto davanti agli occhi, una volta scesa dal treno, sarebbe stato impossibile perdermi. E poi la mamma sapeva (era scaltra e subdola, quella donna, ed in più sapeva ricattarti come nessuno) che non sarei scappata. Aveva detto che se l’avessi fatto non mi avrebbe comprato l’auto. Così io e Becky avevamo convenuto che l’auto fosse una priorità (veniva addirittura prima della mia felicità/salute mentale).


-Dai Becks, non vado in guerra, vado a scuola.-le dissi per la millesima volta, asciugandole le lacrime. Un altoparlante richiamò la mia attenzione. Annunciavano per l’ultima volta che il mio treno stava per partire.


-Buon viaggio, Christa!-disse la mamma, anche lei in lacrime, sventolando un Kleenex.

Sembrava uno di quegli addii ultrafinti di quei vecchi film drammatici. Una roba di cattivo, oserei dire pessimo, gusto. Papà mi aiutò a issare la valigia sul treno. Salii le scale di corsa.


-Au revoir, mes amis!- urlai, sventolando la mano con fare teatrale.

Papà mi salutò con un cenno del capo. Mentre il treno partiva con uno strattone, mi sedetti al mio posto ed incollai il viso al vetro del treno. Vidi Becky piangere, ancora, e lessi il labiale di mio padre. “Buon viaggio, Jamila”.
Rimasi con la faccia contro il vetro praticamente finchè la stazione non fu che un puntolino all’orizzonte. Poi mi rilassai sul sedile, e mi addormentai.
 
Fui risvegliata dalla voce del capotreno (un uomo di età indefinita con una pancia innaturalmente tonda e degli occhiali spaventosamente brutti) che annunciava che saremmo arrivati a destinazione nel giro di cinque minuti. Spalancai la bocca in un immenso sbadiglio, poi mi rassettai i capelli con un gesto. Vidi il mio riflesso nel finestrino opposto: avevo un aspetto terribile. Dovevo aver pianto nel sonno, perché il mascara mi si era sciolto sulla faccia. Tra le mani stringevo ancora la compilation che mi aveva fatto Becky, stracolma di canzoni di cui mezzo paese ignorava l’esistenza (cosa che a noi faceva più che piacere) ma che erano diventate ormai colonna sonora della nostra amicizia. Roba melensa. Roba da Becks.


Il treno si fermò dolcemente, e vidi la stazione, ed alle spalle, la mia nuova scuola. Fui colta da una forte nausea. Non ero mai stata così lontana da casa. Quasi quasi mi mancava la mam…
I miei occhi si posarono sul ragazzo che faceva ciao-ciao con la manina appena fuori dal treno. Feci una smorfia. Fantastico. Cominciamo bene.


-Hai bisogno di aiuto con i bagagli, Christa?-mi chiese, avvicinandosi alla scaletta. Il mio bagaglio pesava più o meno come un’elefantessa incinta, ma non gli avrei mai dato quella soddisfazione.


-No, so badare a me stessa.-trascinai la valigia giù dal treno con stizza.


-Non saluti nemmeno il tuo fratellino?


Mandai gli occhi al cielo. Diamine, che spaccone. Ma non gli faceva male al cervello essere così stupido? Ignorai completamente le sue braccia aperte ed il suo sorriso a 32 denti. Lui aggrottò le sopracciglia e sbuffò.


-Okay, Miss Cimitero Infestato, come vuoi. Mi sei mancata anche tu in questi,ehm, anni.
Detestavo il suo finto sarcasmo. Era solo un modo per mascherare la sua prepotenza. Ci mancava solo che passasse dalla modalità fratello maggiore alla modalità nonnina orba…

A boy like that SOSPESADove le storie prendono vita. Scoprilo ora