2 - In principio

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[Capitoli cortissimi, lo so, scusatemi. Ho ripreso in mano questa storia solo oggi, dopo quasi un anno, e mi rendo conto di essere cresciuta, di scrivere molto di più in un solo aggiornamento e tante altre cose. Ciò che ho già scritto resterà così, almeno prima di un'attenta revisione, spero non si noti troppo lo stacco tra i capitoli già pronti e quelli invece che scriverò da ora in poi]

All'alba dei tempi, prim'ancora che nascessero la terra o il cielo, prima che il mare lambisse le scogliere con le sue onde, il centro del mondo era occupato da un'immensa voragine: questa voragine si chiamava Ginnungagap.

Era però difficile pensare che fosse davvero così, visto che l'inizio delle sue giornate includeva i raggi di sole che si insinuavano tra le palpebre pigre. Da quando era rimasta sola aveva una sorta di timore reverenziale a salire sul tetto e provvedere a ripararlo: prima degli inverni gelidi era compito del padre. Non voleva trovarsi faccia a faccia con i ricordi, sapere che la madre era così in pensiero per lui da partire il giorno stesso in cui l'aveva partorita, per aiutarlo. Erano morti insieme in battaglia, e questo era il privilegio più grande: Odino stesso li avrebbe accolti nel grande salone dove avrebbero passato l'eternità a bere e combattere, nel Valhalla.

Erano i diretti discendenti dei Vichinghi, e come tali conservavano le loro tradizioni e la loro fede, nonostante gli Umani avessero sviluppato nuove teorie, dalla più fantasiosa alla più scioccante – basta citare l'ateismo, che tra la loro gente era quasi una bestemmia.

Tutti crescevano con le storie del loro popolo, tutti vi credevano non solo dal punto di vista religioso, ma anche morale, ed è questo che li rendeva integri, come un sol uomo.

«Ti scongiuro!», sentì dire. Quella mattina, nonostante il sole facesse capolino da oltre le nubi, Tor aveva deciso di agitare il suo martello, generando lampi e pioggia. Scostò la tenda di pelle che chiudeva l'ingresso e non permetteva al freddo di insinuarsi, e sbirciò chi potesse essere tanto scellerato da buttarsi sotto le gocce di pioggia ghiacciate.

Il Principe Demone era sotto uno strano oggetto nero, con un'asta che teneva fra le mani. A dispetto della stranezza del manufatto, pareva riuscire a tenerlo a riparo dall'acqua scrosciante. Accanto a lui, stretto ad una gamba, vi era il bambino che Freya aveva notato qualche giorno prima davanti alla capanna del Re. Era stato lui a dire quelle parole, ad attirare l'attenzione della ragazza.

Come se avesse percepito gli occhi di lei, la testa del Principe scattò, rivolgendole uno sguardo nero. Quegli occhi erano così scuri, così diversi da tutti quelli che aveva mai visto in sedici anni di vita. Non appena si accorse di essere stata notata, sussultò e si nascose dietro la tenda, dandosi poi della stupida. Era forse una bambina imbarazzata che era stata colta a fissare un estraneo? No, lei era una Ragazza Scudo, o almeno si allenava per esserlo, e non poteva di certo sentirsi a disagio per aver osservato un ragazzo se pretendeva di combattere in battaglia e dare lustro alla sua gente.

Scosse la testa, cercando di scacciare quelle idee dalla mente, e decise di cominciare ad impastare un po' di pane, dato che a causa dell'irruenza di Tor non poteva né andare a caccia né a pesca; comprare da qualcuno o barattare era da escludere: cosa aveva da offrire che gli altri non potevano procurarsi?

«Dai!», sentì dire di nuovo dal bambino, oltre la tenda che impediva di vedere all'interno della capanna. Possibile che i Demoni fossero così indiscreti?

Non udì altro, perché la pioggia si fece molto più forte. Una vocina nella mente le suggerì di andare a controllare se i due stranieri avessero bisogno di qualcosa – in particolare il piccolo – ma poi si diede della traditrice: i suoi genitori erano morti per loro, non avrebbero ottenuto altro da lei.

Dopo aver impastato per quasi tutta la mattinata, mise il suo lavoro a lievitare, andando a prendere un po' d'acqua per lavarsi le mani appiccicate a causa dell'acqua e della farina, ma si accorse con stizza di come il secchio fosse quasi vuoto. Pulì le dita alla bell'e meglio, ma si vide costretta a ripararsi bene e recarsi al pozzo: se la tempesta fosse continuata, sarebbe rimasta senza qualcosa da bere.

Scostò la tenda e si affrettò dove il giorno prima il Demone le aveva fatto rovesciare il secchio a terra. Lo incastrò nel gancio e tirò giù la corda, rendendosi conto solo dopo di quanto fosse scivolosa. Quando infatti fece per tirare, le sfuggì dalle mani.

All'improvviso le gocce di pioggia smisero di colpirla. Si guardò intorno confusa, vedendo come la tempesta non avesse smesso e si accorse che qualcosa di nero la divideva dal cielo in tumulto. Alle sue spalle stava il Demone, con quello strano aggeggio tra le mani.

«Posso darvi una mano?», chiese gentile. La ragazza notò come non fosse per nulla bagnato nonostante tutta l'acqua che gli Dei volevano riversare su di loro.

Deglutì, incerta se mandarlo da dove diavolo era venuto o farsi aiutare. Gli occhi neri di lui la guardavano curiosi in attesa della risposta, ma dopo poco aggrottò le sopracciglia scure e disse: «Siete completamente zuppa. Avete della legna per riscaldarvi, a casa?».

«Sì», rispose lei, mentendo senza neanche pensarci su. Non avrebbe accettato nulla da lui, neanche se fosse stata arsa dalla sete.

«Potreste tenerlo un attimo?», domandò con calma, come se intorno a loro non infuriasse una tempesta.

Lei lo guardò confusa, per poi posizionare la mano accanto a quella del ragazzo, su un'asta metallica davvero perfetta, per nulla piena di bozzi o ammaccature. Quando questo lasciò la presa, sentì la pesantezza dell'oggetto e le gocce di pioggia che battevano su quel tetto nero mobile. Intanto il Demone aveva afferrato la corda e stava tirando su con un po' di fatica. Stava quasi per farcela, quando perse la presa, facendo tornare il secchio all'interno del pozzo.

Si voltò di nuovo verso la ragazza, con le braccia bagnate dato che si era sporto oltre quel manufatto anti-pioggia.

«Mi dispiace, ma non ci sono proprio riuscito», affermò sconfitto.

Lei stava pensando a come congedarlo, quando lui la anticipò, sorprendendola: «Dato che ieri vi ho fatto sfuggire da mangiare e oggi da bere, posso almeno cercare di rimediare con un pranzo? Sigfrid è molto generoso e non credo ci siano problemi se veniste con me».

Era un po' scocciata: viveva da sedici anni in quel villaggio, ed ora il Demone di turno veniva a dirle quanto il Re fosse generoso? Certo che lo sapeva, lui era stato tra quelli che le avevano offerto una famiglia in cui crescere.

«Per rispettare questo muto patto, dato che ieri vi ho detto di no, oggi farò lo stesso», disse lei, più per orgoglio che per vera volontà. Sicuramente nella capanna del Re l'acqua sarebbe discesa a fiumi, così come la carne, ma lei era davvero restia a fidarsi. Evitò di pensare a tutto quel cibo che si sarebbe goduto il Demone al suo posto.

«Mi sentirei in colpa a sapervi nella vostra capanna senza acqua né legna», rispose prontamente lui. Era fastidioso, non demordeva affatto.

«Ma se vi ho detto che ce l'ho la leg...», protestò lei, ma venne interrotta dalla voce altezzosa del Demone: «Era chiaramente una bugia».

«Beh, state a vedere se mento», sbottò, uscendo dall'ala protettiva di quello strano oggetto, tuffandosi nella tempesta, diretta a casa, dove non v'era acqua o calore che la attendesse.

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La citazione all'inizio del capitolo è la prima frase del libro "La creazione del mondo e degli dei" di Vilhelm Grønbech.

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