Non vidi più Hunter dal giorno del ringraziamento.
La ricordai come una giornata perfetta, anche se dentro di me una strana sensazione si faceva spazio quando ne affiorava il ricordo. Non riuscii a capire a cosa fosse dovuto e, nonostante tentai diverse volte di associare quella brutta sensazione ad un qualche momento che avevo probabilmente archiviato, alla fine lasciai perdere.
Fu uno degli ultimi giorni felici della mia vita.
La mattina di Natale dello stesso anno la mamma era scomparsa.
Tutte le sue cose erano al loro posto. I vestiti e le scarpe erano riposti in maniera ordinata nel suo guardaroba, i suoi gioielli nel portagioie, il cellulare, le chiavi, i documenti, i contanti.. Era tutto esattamente dove lei l'aveva lasciato, ma di lei non c'era alcuna traccia.
Papà avvisò immediatamente la polizia. Nei suoi occhi era riflesso il suo terrore.
Presto la nostra casa si riempì di agenti che la misero a soqquadro per cercare ogni tipo d'indizio.
Io stavo in un angolo ad osservarli, con lo sguardo vuoto, incapace di piangere.
Non sapevo cosa pensare. Non ci avrebbe mai abbandonati di sua spontanea volontà, non avrebbe mai voluto farci soffrire. Ci amava troppo.Qualsiasi ipotesi di rapimento era fuori discussione. Gli allarmi erano attivi, non c'era nessun segno d'effrazione e niente poteva far pensare ad uno scontro avvenuto per difendersi.
La sua poteva esser stata una fuga, ma da cosa? Andava tutto bene, o almeno così noi credevamo. Niente, il giorno prima, ci aveva dato modo di pensare che la mamma avesse intenzione di andarsene, o che fosse angosciata o in pensiero per qualcosa.Le volanti perlustrarono ogni angolo della città, invano.
Le ricerche continuarono per mesi, ma non riuscimmo a venire mai a capo di niente. Si era come volatilizzata. Era sparita senza lasciare traccia.
Alla fine la polizia si arrese. Non trovammo mai una spiegazione alla sua scomparsa, l'unica cosa ovvia era che, dovunque fosse, non voleva essere trovata.Il mondo non si era fermato. Tutti erano andati avanti.. tutti tranne me.
Rivivevo quel giorno ogni singola volta in cui le mie palpebre stanche cedevano, incapaci di restare aperte un minuto di più. Lo stesso incubo che non mi permetteva di chiudere occhio continuava a tormentarmi.Dicono che esistono diversi modi per metabolizzare il dolore. Ognuno lo percepisce e, di conseguenza, lo affronta a modo proprio.
C'è chi si sente soffocato a tal punto da non riuscire a contenerlo, chi cerca conforto negli altri e preferisce avere un sostegno al proprio fianco, una spalla su cui piangere e qualcuno che provi a strappargli un sorriso di tanto in tanto.
C'è invece chi si isola, chi tiene il dolore gelosamente per sé, come se da un momento all'altro qualcuno potesse strapparglielo di dosso con violenza. Chi si aggrappa ad esso con tutte le forze, perché è tutto ciò che gli resta. Lo accoglie e lo accarezza, mentre lui è impegnato a divorarne l'anima voracemente.
Io appartenevo alla seconda categoria.Tutto sembrava esser tornato come prima, ma io non ero più la stessa.
Anche papà era cambiato. Non mi guardava più in faccia. Trascorreva le sue giornate fuori casa. Scambiavamo solo due parole al mattino, lo stretto necessario.
La scuola era ricominciata. Nel momento in cui avevo messo piede nel corridoio, gli occhi di tutto il liceo erano puntati su di me.
Tutti sapevano.
Il loro sguardo trasmetteva un misto di dispiacere ed imbarazzo. Nessuno di loro diceva niente, forse perché non c'era niente da dire.
Con il tempo mi abituai agli sguardi e al silenzio. Ero la ragazza a cui era scomparsa la madre, nessuno mi rivolgeva la parola e a me andava bene così: non desideravo la compassione di nessuno.Mio padre mi aveva abbandonata nel momento in cui avevo più bisogno di lui. Avevamo un disperato bisogno l'uno dell'altra, ma al mio conforto preferì quello dato dall'alcool.
Era diventato un cliente abituale del bar dietro casa. Spariva per giornate intere e rientrava a notte fonda sempre più ubriaco. Dalla mia camera riuscivo a sentire le sue grida e il rumore di oggetti che andavano in frantumi contro il muro e sul pavimento.
Tutto quel fracasso non diminuiva fino a quando, alle prime luci del mattino, fra lacrime e sangue mio padre crollava esausto.
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to survive
Teen FictionJudith Roberts. 17 anni. La sua vita era un casino, niente andava come doveva andare. Era tutto sbagliato. Ma niente è destinato a durare per sempre. #26 IN AVVENTURA.