VI - Sveva

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Per questioni legali, che tu conosci molto bene, non solo non posso fare nomi, ma non posso nemmeno essere troppo precisa nelle descrizioni.

Dovrò cambiare qualcosa, o rimanere sul vago in alcuni tratti.

Vedrò. Vedrò, perché è estremamente difficile parlare della Somma senza renderla distinguibile e riconoscibile.

Uno dei ricordi più ridondanti e antichi che ho di Lei è la sua voce nella segreteria telefonica, quando chiamava Edo al mattino per dargli commissioni da svolgere come fosse il suo segretario personale.

Io e lui stavamo stesi sul soppalco, magari in dormiveglia, o ancora del tutto addormentati; o intenti ad imprimerci nella memoria la "mappa dei nostri nei" - per dirla alla Petra Mengoni - e puntuale, ogni mattina in cui io andavo a Firenze e, suppongo, anche quando non ci andavo, lei telefonava. Dopo qualche squillo partiva la segreteria telefonica, la voce registrata del nastro entrava in funzione e, dopo il fatidico BIP!, lei attaccava: «Edoardoooooo! Edoardo svegliati! Devi andare a pagare la bolletta della luce/pagare una multa/pagare l'affitto della casa editrice/portarmi l'auto dal meccanico/ecc...! Edoardoooo! Edoardo svegliati!» sempre molto assertiva. «Edoardo senti sbrigati perché ho bisogno di te! Chiamami appena ti alzi, vabbbeneeee?!» E questo era poi perentorio, si doveva fare così, e basta.

Edoardo, che nella mia mente di ragazza provinciale era una vera divinità, era l'uomo che non rubava biciclette intere ma ne prendeva solo dei pezzetti qua e là, per poi rimontarli assieme in giardino componendo bicicli davvero originali e perfettamente funzionanti; era l'uomo che aveva sempre fatto judo e che ancora seguiva il precetto di mens sana in corpore sano; l'uomo che si costruiva gli strumenti da solo e li suonava come pochi in Italia sapevano fare in quel periodo; era l'uomo che non sbagliava mai un esame; ma che a prescindere da tutto questo, semplicemente, non sbagliava mai nulla di quello che decideva di fare.

Quindi per me il richiamo acido che Sveva affidava alla segreteria telefonica era una cosa buffa. Non ho mai pensato nemmeno per un istante, che Edoardo potesse essere succube di quella donna, l'idea era talmente estranea alla percezione che avevo di lui, che avevo già categorizzato questi episodi come una forma di patto tra loro.

Perché, almeno quando io ero a Firenze, non potesse proprio considerare l'idea di lasciargli un fine settimana libero per noi, non lo capivo, ma io...

Anche ora sono tante le cose che non capisco delle persone, ma a quel tempo, davvero, tra me e una decerebrata non c'era molta differenza, la mia fiducia nel mondo era totale. Avevo fiducia nelle motivazioni di Sveva e altrettanta nelle reazioni di Edoardo.

La mia era una totale incapacità di formulare (e quindi di individuare) pensieri maliziosi, supporre negli altri fini diversi da quelli dichiarati; credevo nell'umanità e soffrivo già da allora di un ottimismo dal quale non credo potrò mai emanciparmi.

Quindi, niente, per me Sveva era solo una persona estremamente interessante che a volte forse non si rendeva conto del momento o del modo, in cui si inseriva.

Del resto, poi, era casa sua, erano i suoi figli, e aveva tutti i diritti di interagire con loro come voleva e di stabilire le regole di casa sua come meglio credeva opportuno.

Però... Però a me piaceva Sveva. Mi piaceva Sveva, mi piacevano il suo mondo e il suo modo.

Mi piaceva andare in casa editrice, edizioni d'arte, ricordi? Mi piaceva sfogliare le riviste che pubblicava e mi piaceva sentirla parlare del suo lavoro.

Mi piaceva quando, nelle rare occasioni in cui ci trovavamo insieme, mi raccontava di quando era ragazza, del suo primo importante incontro con il mondo dell'arte, di quest'uomo dotato di intelletto, cultura e talento che l'aveva introdotta in modo definitivo nel mondo dell'arte. Mi piaceva quando parlava di quella che era stata la sua vita.

Di quando (e a quel tempo non erano molte donne a farlo) si tingeva sempre i capelli dei colori più incredibili, e il piccolo Edo qualche volta non la riconosceva.

Soprattutto mi piaceva il fatto che mi desse fiducia. Sveva era un'intellettuale, che lavorava nel mondo dell'arte, aveva sempre avuto uomini importanti e lei stessa era diventata il centro assoluto non solo del mondo toscano dell'arte, ma richiamava gente da ogni parte d'Italia.

Quando lei si degnava di parlarmi del suo lavoro o di quello che pensava di una certa opera o del perché la fotografia di Franco Riva, suo ex compagno, padre di Luigi e padre adottivo di Edoardo, era destinata a sparire dal supporto su cui era stampata, io non solo rimanevo affascinata, ma bevevo alla lettera tutto quello che lei mi trasmetteva.

E mi sentivo importante. Perché capivo che non lo avrebbe mai fatto se non mi avesse considerata sufficientemente intelligente, sensibile, ricettiva e preparata per ricevere i suoi insegnamenti.

Aveva deciso che le piacevo e mi passava tutto quello che poteva, come un Maestro con il suo apprendista.

Ma lei non era l'unica a essere attirata da me. Anche Franco, il padre di Luigi, riponeva immensa fiducia nelle mie capacità.

Mi stimolavano, mi apprezzavano, trovavano sempre il tempo di confrontarsi con me, anche se ero solo una ragazzina. Franco, che come sai è stato uno dei maggiori pubblicitari (e fotografi) italiani, non aveva nessun tipo di superbia, a differenza di Sveva che con chi non considerava degno di attenzione, era una vera vipera. Franco no, lui era sempre dolcissimo. Con me, con Edoardo e con tutti.

E io tra loro mi sentivo come in quella famiglia che non avevo mai avuto.

E mi sentivo una privilegiata. Perché comprendevo, anche se non ne avevo mai visti prima di allora, che avevo a che fare con dei veri intellettuali e che questi intellettuali ci tenevano alla mia opinione.

Quando tornavo a casa mi sembrava di precipitare nella morte.

A Firenze qualcuno alimentava la mia istintiva curiosità per la cultura, la bellezza e la vita. C'era tutto a Firenze, Edoardo con la sua musica, Sveva con i suoi giri di artisti e le sue pubblicazioni, e Franco , che aveva sempre l'occhio di chi sa scovare la bellezza anche dove apparentemente non c'è.

Lì, e solo lì, mi sono sentita a "casa" per la prima volta nella mia allora breve vita.

Quando capii come stavano le cose in quell'ambiente e l'aria densa di saperi che si respirava, tutta la rabbia che avevo sempre avuto sparì di colpo. Ricordo benissimo che mi sentivo come il brutto anatroccolo quando finalmente capisce che se si era sentito male fino a quel momento era solo a causa del fatto che non aveva ancora mai trovato la sua vera famiglia.

Quel lungo periodo fu davvero bellissimo.

Credo il migliore della mia vita.

Io seguivo Edoardo ai concerti, a casa c'erano Sveva e Luigi, spesso andavamo da Franco. Edoardo, poi, mi fece conoscere tantissimi musicisti, molti anche sudamericani o africani, molti toscani ovviamente. Tutti, bravissimi.

E io facevo la "ragazza dietro le quinte", posizione che anche tu conosci benissimo.

No, non lo aiutavo quando c'era da smontare, nessuno me lo ha mai chiesto, ma a me semplicemente piaceva guardare i suoi gesti e lui si beava di avere una donzella tanto aggraziata accanto.

Tante volte Edo mi ripeteva che sarebbe stato bello trasferirsi a Londra, dove lui avrebbe potuto suonare. E io? Be', tu, niente, vieni con me, diceva. Era un progetto che mi esaltava. Avevo cominciato a improvvisare un'attività di artigianato da vendere in strada per poter guadagnare qualcosa.

Non avevo nessuna esitazione: lo avrei seguito in capo al mondo.

La notte più lunga - il dio di cartapesta - (BOZZA)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora