Lo avevo accompagnato alla stazione come ogni volta, ma quella volta era diversa.
Aveva fatto discorsi strani quel fine settimana circa la nostra relazione, qualcosa come... che dovevamo evolverci in altro, che saremmo stati ancora più uniti di prima ma in modo diverso, che le cose cambiano, si matura e boh, tante altre cose che io presi per oro colato, come sempre avevo preso le cose che mi diceva lui.
Non ha mai pronunciato il verbo "lasciarsi" in nessuna declinazione, per tutta la nostra lunga conversazione ha sempre e solo mostrato ipotetici quanto improbabili scenari positivi che la trasformazione del nostro rapporto avrebbe dovuto comportare.
E io ci credevo. Era stato così bravo che a me parve persino che avremmo iniziato un percorso privilegiato.
Poi lo accompagnai al treno e gli chiesi quando ci saremmo visti la prossima volta e lui disse che non lo sapeva.
Lo guardai con aria stupida, non capivo.
Lui seguiva i miei occhi con i suoi verdi e serissimi.
«Silvia,» pronunciò il mio nome con tutta la dolcezza di cui era capace «le cose sono cambiate, ci vedremo ancora, prima o poi, ma da amici».
E lì calò il buio. Non riuscii più a parlare, cercavo di raccogliere le idee e le parole ma annunciarono l'arrivo del treno e l'unica cosa che riuscii a fare fu piangere. Ma non era un pianto solo disperato. Ero stupefatta, stordita, incapace di capire e ancor meno di accettare il senso di tutto il parlamentare di quei due giorni e di quello che mi aveva detto or ora.
Salì sul treno. Infilò la testa nel primo finestrino libero e continuò a guardarmi con occhi tristi; io lo guardavo e piangevo. Il treno si allontanava lasciandomi sulla banchina piantata come un pilastro della stazione.
Feci fatica a voltarmi, attesi che del treno non si vedesse più nemmeno la coda. E rimasi lì ancora un po', a fissare le rotaie e tutto il mio mondo che se ne andava per sempre.
Piano piano mi voltai e raggiunsi la bicicletta. Pedalare era faticoso, il granito che avevo nel cuore e nello stomaco sembrava essersi impadronito di ogni mia fibra.
Non ricordo nulla di quello che mi avveniva attorno in quei giorni. Non so cosa dissi a mia madre e a mia nonna, non so se il giorno dopo andai a scuola o se rimasi a casa a disperarmi. Le uniche cose che ricordo sul piano della realtà furono due telefonate, una ad una amica comune per farmi dare il tuo numero, Ester, e la chiamata che feci a te nella quale ti giurai che se gli avessi mai fatto del male ti avrei ammazzata con le mie mani.
Il resto, quello che mi rimane di quei giorni, sono le emozioni, il senso di devastazione che avevo dentro. Mi muovevo come uno zombie, piangevo e pensavo. Pensavo tanto. Pensavo che non avrei più rivisto Sveva, Franco, Luigi. Pensavo che adesso il mondo della musica mi sarebbe stato precluso, pensavo che tutto il sapere di Edo, che costituiva un buon settanta percento del mio interesse per lui, avrei dovuto cercarlo altrove, pensavo addio vacanze in moto. Pensavo addio lezioni di musica buona, addio audiocassette registrate con sapienza e cultura. Pensavo addio indagini nel mondo dei sogni e addio lettere d'amore.
Le lettere... Ci scambiavamo chili di carta ogni settimana. Le lettere... Le radunai tutte e le portai giù nel cassonetto insieme a quasi tutte le sue cose. Mi liberai del violino.
Mi rimase, però, una candela rossa che stavo scolpendo a forma di donna e che avevo intenzione di finire prima del nostro incontro successivo per regalargliela.
Finii di scolpirla e mentre finivo continuavo a pensare... Pensavo che tutto sommato lui aveva scelto te perché avevi una casa e lui non ne poteva più di stare con sua madre, pensavo che in questo si era dimostrato un vero vigliacco.
Pensavo che i musicisti - ne avevo frequentati altri - amano solo la musica.
Pensavo che tutto quello che avevo amato di lui, in fondo era esterno a lui: erano l'arte di sua madre e di Franco, erano i suoi amici, era la musica che suonava e ascoltava, era poter godere di un certo habitat culturale. E allora perché disperarsi? Possibile che io dovessi rinunciare a tutto solo perché mi aveva lasciata?
Decisi di tenere i contatti con Sveva e Franco, decisi di imparare a distinguere (nel caso ne avessi avuto bisogno) la buona musica dalla merda. Per la moto non sapevo come fare, ma ero certa che prima o poi avrei trovato una soluzione.
Intagliavo e pensavo. E piangevo. Pensavo che l'unico modo per liberarmi da quel dolore immenso, che mi sbranava l'anima come un orso incazzato, fosse quello di rendermi autonoma in tutto quello che lui mi aveva dato e che da ora in poi non sarebbe più stato mio.
E decisi.
Finita la figurina di donna l'avrei accesa e consumata. Era ormai sera quando la finii, ora di andare a letto. La accesi e stabilii che non avrei dormito finché non si fosse consumata tutta.
Passai la notte sveglia a piangere tutte le lacrime che avevo in corpo.
Il lume ondeggiava alla lieve corrente che entrava in spifferi dalla finestra, io lo fissavo e piangevo, gli occhi stanchi, incollati alla fiamma sembravano dover andare a fuoco con la candela. Ripassavo mentalmente tutto quello che avevo pensato e stabilito nei giorni subito successivi alla partenza di Edo.
La notte era collosa e profonda come un lungo budello di melma. Mi stavo dedicando tutto il tempo necessario per urlare fuori di me il male che sentivo, giurando che finita la candela avrei smesso di piangere e sarei passata oltre. Non avrei più pensato a Edo, mai più. Ma la candela non finiva mai, come il mio dolore, come lo squarcio che avevo nell'anima.
Verso l'alba infine, dopo qualche guizzo, il lume si spense, e io crollai consumata, chiudendo per sempre le porte alla felicità.
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La notte più lunga - il dio di cartapesta - (BOZZA)
General FictionUn lungo De Profundis contemporaneo. Una confessione che intreccia le vite di due donne che non si sono mai viste ma le cui vite si sono incrociate in un momento decisivo per entrambe le loro esistenze. Ester e Silvia, dopo aver passato la vita a im...