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Quando torno a casa sono priva di forze e mi accascio accanto la gatta, appoggiata ai piedi del letto. Respira a mala pena e le medicine che ha preso non stanno facendo nessun effetto. Neanche il veterinario riusciva a spiegare questo improvviso malore.

La mia gatta stava bene, in salute. L'unica cosa che avevo notato erano alcuni comportamenti strani, ma non potevo ricondurli a un malore fisico.

Mia madre entra nella stanza con una montagna di vestiti tra le mani, apre il cassetto del mio armadio e vi ripone i calzini. Da' un'occhiata alla gatta, poi a me.

«Come sta?»

Alzo le spalle, mi stropiccio gli occhi. Non voglio perderla.

«Mi dispiace»

«Anche a me.»

Linda lascia un paio di magliette pulite sulla sedia della scrivania e poi fa per uscire.

Scatto a sedere, la chiamo. Lei si blocca sulla soglia. «Hai parlato con Francesco?» sbotto.

Lei aggrotta la fronte. Annuisce piano.

«Perché?»

«Per lo stesso motivo per cui ti ci ho fatto parlare al telefono, pensavo ti avrebbe fatto piacere incontrarlo.»

«Si ma allo scuro di papà? Sii sincera. Non lo avresti fatto se non ci fosse un motivo preciso.»

Lei mi si avvicina. Ha l'abitudine di sedersi sul mio letto quando parliamo. «Non ti direi mai una bugia. È per questo.»

«Ma non lo dici a papà.»

«No, lui non te lo permetterebbe.» Sospira profondamente, strofina le mani sulle cosce coperte dal grembiule bianco. «Sei mia figlia...vederti così, triste e sconfitta, rende così anche me. Ma tuo padre non può saperlo e lo sai meglio di me, purtroppo devi accontentarti di questo.»

«Quindi dirai a Francesco che lunedì sono al catechismo?»

Mia madre annuisce. «Se Antonio lo sa, sono guai grossi.»

La abbraccio, le dico grazie.

«Non mi farò scoprire, promesso.»

Non scompare la preoccupazione dal suo viso, ma accenna un sorriso. Poi lascia la stanza.

Il resto della giornata si trascina lentamente, aiutando mia madre nelle faccende di casa e stando accanto alla gatta, che sembra sprofondata in un sonno che durerà cento anni. A tratti mi scappa una lacrima, ma spero che si rimetta, prego per lei. Che sia un gatto, una persona o un moscerino, sono sicura che se Dio c'è, ascolta le mie preghiere.

È notte fonda. Dormo con la testa ai piedi del letto, sono agitata, inquieta. Non riesco a spegnere totalmente il mio cervello, che rimane in uno strano stato di semi veglia in cui mi propone immagini orrende e brutti pensieri. Sogno tutta la notte, ininterrottamente. Sono con mio padre su un autobus, e un mare immenso ci separa da un'altra terra che dico sia l'America. Quella terra non è lontana e ne vedo gli enormi grattacieli, sotto un cielo lilla e viola che libera lampi e fulmini.

Poi sono in mezzo a un bosco che corro, corro forsennata. Schiaffo via le piante che mi ostacolano ma un ramo mi taglia lungo tutto l'avambraccio destro, gemo di dolore e mi accorgo che sanguino. Il dolore mi offusca la vista e l'equilibrio, non riesco a liberare la strada al mio passaggio. Inciampo e cado per terra. Ho paura e sto scappando, e nonostante il dolore mi rialzo di scatto, ma non sono più nel bosco.

Alzo il viso. Le mani tremano e ho brividi di freddo lungo tutto il corpo, il mio corpo nudo. È una stanza grande quanto la mia, ma vuota e semi buia. La parete di fronte a me è coperta di specchi che riflettono il nulla oltre me, nuda e abbandonata a me stessa. Il braccio sanguina ancora, ma quando tocco le ferite mi accorgo che sono rimarginate. Provo un vuoto dentro angosciante, un dolore al petto che mi chiude la gola e respiro a mala pena. Alzo lo sguardo e fisso il mio allo specchio. La mia pelle bianca sembra porcellana sotto la luce dello specchio, macchiata del rosso vivido del sangue. I capelli sono sciolti dietro le mie spalle, scompigliati come se avessi scosso la testa forsennatamente. Gli occhi sono iniettati di sangue e reduci dal pianto. Socchiudo le mie labbra rosse, avvolgo le braccia attorno al mio busto e copro i seni. Stringo le gambe. Non ho vergogna della mia stessa nudità, ma sento di non essere più sola. La paura mi immobilizza, non riesco a guardare altra parte che non sia me stessa allo specchio. Qualcuno mi si sta avvicinando, ne avverto la presenza e lo sguardo addosso, pesante su di me.

«Lasciami in pace» sussurro.

Le gambe stanno per cedere, mi sento debole e sola.

Adesso la presenza è vicina a me. Il cuore batte come un tamburo nel mio petto e rimbomba nelle orecchie, le mie gambe esili tremano, mi sento incredibilmente piccola.

Sta dietro di me. Adesso ne percepisco qualcosa di umano, il suo respiro: lento e ritmico, vicino al mio collo, ossessionato. Allo specchio la sua figura non si vede. Solo i suoi occhi, accesi, che mi guardano, che valgono più di mille parole, che mi dicono qualcosa che mi spaventa. Che sono di un colore che paralizza i miei muscoli e mi logora, un rosso sangue vivido come quello che mi scorre dal braccio, da una ferita che non c'è più.

«Lasciami in pace» sussurro di nuovo, la paura mi sta mangiando viva, sta saturando l'aria attorno a me.

Ad un tratto provo un dolore lancinante alle spalle, lancio un urlo.

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