Migrare: chi, dove, come e soprattutto perchè

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Migranti, stranieri, extracomunitari: quante volte sentiamo uno di questi termini nel corso della giornata. Al telegiornale, sulla copertina di una rivista, nella testata di un quotidiano, ognuno si ritrova a contatto con queste parole, anche senza volerlo. Tutto attorno a noi sembra suggerire che è strettamente necessario parlarne,  di migrazioni, anche se potrebbe sembrare qualcosa che non ci riguarda. E allora parliamone. Noi del Volta, il 6 giugno scorso, ne abbiamo parlato. Stretti nel piccolo spazio della nostra Aula Magna, abbiamo ascoltato i racconti dei rappresentanti di diverse associazioni di volontariato che si occupano di soccorso ai rifugiati (e non solo). È indispensabile parlarne, la discussione genera conoscenza e confronto. E dirò di più, parlandone, durante l'assemblea, abbiamo scoperto che ne parliamo troppo poco, di migrazioni, ne sappiamo troppo poco.
In Italia nel 2015 le notizie sui migranti sono quadruplicate e nei primi sei mesi del 2017 ci sono stati soltanto 12 giorni senza che il quotidiano portasse tra le sue pagine un articolo sui migranti (dati forniti dall'Associazione Carta di Roma, che si batte per una corretta informazione sull'immigrazione). Tutto ciò sembrerebbe essere in netta contraddizione con quanto sopra scritto; se non fosse. Se non fosse che un'associazione dal nome "Reporter senza frontiere" ha messo in fila i Paesi europei per libertà di stampa. E il nostro caro vecchio stivale non è tra i primi posti. Secondo queste statistiche, in Italia la stampa nasconde molte informazioni. Troppe. Non come quella della Norvegia, Paese che occupa il centro del podio.
E così spesso sentiamo parlare di immigrazione dalle voci feroci e disinteressate dei politici, che fanno dell'argomento delicato e instabile un'arma per destreggiarsi nei giochi di potere.
Per combattere la disinformazione che ci affligge, noi voltiani siamo andati a comunicare direttamente con chi la realtà dei migranti la vive ogni giorno. Adele, una suora di Milano trasferitasi in un Ospedale del sud della Giordania, la zona più povera del Paese. "La situazione qui è molto difficile", racconta. "Incertezza, paura, attacchi terroristici. C'è sempre qualcuno che ha bisogno di aiuto. Non ci fermiamo mai, eppure non è mai abbastanza". La voce è ferma, ma si sente il sapore di quell'instabilità che è diventata la sua casa, il suo rifugio. "L'altro giorno, dopo un bombardamento, una bambina ha perso i capelli per lo shock". A me viene un colpo soltanto a sentirlo raccontare, non so cosa sarebbe successo se fossi stata lì. Nel sud della Giordania abitano 6 milioni di persone, in aggiunta ad un milione di profughi provenienti da Siria e Iraq. "Le famiglie dei profughi sono composte in media da 7-10 persone", continua suor Adele. Racconta tutto con semplicità, chiamando "normale" (e sapendo che non lo è) quello che è impensabile per noi cresciuti in un altro posto, in un'altra società. In un altro mondo.
Ci spostiamo nell'area meridionale del Senegal. Circa trent'anni fa, la popolazione poco rappresentata dal governo centrale ha trovato la forza di ribellarsi, dando vita ad un conflitto che ha messo in fuga molti abitanti. Le persone si sono spostate nella Guinea Bissau, dove oggi ci sono circa 500 senegalesi. Anche qui la situazione non è tra le più semplici. Vivere in un paese da straniero non vuol dire soltanto essere lontano da casa, dalle tradizioni, dalle abitudini. Vuol dire trovarsi fuori dalla società, alla periferia del mondo sociale ed economico. La cosa si complica ulteriormente se il Paese dove arrivi è povero e cadente, immerso fino al collo in problemi finanziari e non solo. Un Paese che di certo non riesce ad occuparsi anche dei rifugiati senegalesi, che risultano un ulteriore piaga da affrontare. Per  questo, Riccardo Mulas, di Mani Tese, ha dato il via ad un progetto per la reintegrazione dei rifugiati senegalesi in Guinea; il progetto è finanziato dalle Nazioni Unite e prevede l'integrazione e il sostegno economico, oltre al miglioramento dell'agricoltura, delle scuole e aiuto a donne, bambini e portatori di handicap. Oltre al trasporto di un po' di speranza, dove è rimasta solo resa e disperazione.
Chi migra non va incontro ad un destino favorevole. Abbiamo ormai troppi esempi sotto gli occhi che scoraggerebbero anche il più determinato degli uomini. Eppure le persone, ieri, oggi, domani, continuano a partire, continuano a lasciare la propria casa alla ricerca di un posto a cui poter dare lo stesso nome. Viene naturale chiedersi: perché? Per capire al meglio il fenomeno immigrazione, bisogna conoscerne le cause. La principale di queste è la guerra. E quindi siamo punto a capo. Cosa porta alla guerra che spinge le persone a migrare? È una domanda molto ampia, potrebbe essere discussa a lungo. Il 6 giugno, all'assemblea, noi abbiamo risposto così: crisi dell'acqua, assenza di dialogo, presenza di gruppi terroristici, volontà di indipendenza, ribellioni locali. A questo elenco smilzo e insufficiente, suor Adele ha voluto aggiungere un numero: nel mondo ci sono 800 milioni di armi da fuoco. Aiuto.
Durante l'assemblea sono state dette tante cose, numeri, informazioni e storie che ci hanno sorpreso, impressionato, stupito.
Tanti racconti di stranieri, bambini, rifugiati, immigrati, sfollati. Non abbiamo parlato di noi, abbiamo guardato agli altri, come dovremmo fare più spesso. Tante notizie di cui magari una ci è sfuggita, l'altra ce la siamo dimenticata, un'altra ancora l'abbiamo rimossa. Una cosa però dobbiamo portarla via da questo incontro, e paradossalmente non riguarda gli altri, ma noi: sentiamoci dei privilegiati. Abbiamo il dovere di sentirci dei privilegiati. Lo dobbiamo, a noi stessi e soprattutto a chi ogni giorno lascia tutto per andare incontro alla vita.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Aug 18, 2017 ⏰

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