1-Sarah

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Prima c'era la luce, la musica inondava le pareti dell'auto, le risate dei miei genitori si mescolavano leggere nelle mie orecchie, il vento che proveniva dai finestrini abbassati mi sfiorava leggero la pelle, i miei occhi guardavano il panorama verde all'esterno e la mia mente percepiva la libertà.

Dopo non c'era più niente di tutto questo.

Il corpo di mia madre giaceva incastrato nel parabrezza frantumato, mio padre era immobile sul suo seggiolino con un enorme buco nel cranio procurato da chissà quale oggetto, il vento era cessato, nessuno rideva più, l'unico rumore che riuscivo a sentire era la musica della radio ancora accesa.

Non era una buona musica, non più, se prima era allegra, dopo si era unita a tutto il resto, era diventata fredda, come tutto il resto, inquietante.

Prima mi divertivo a leggere libri sulle ginocchia di mia madre, mentre mio padre sedeva sul divano accanto a noi e sorrideva beato, guardandoci.

Mi godevo le giornate all'aria aperta, chiudevo gli occhi e immaginavo il sole.

Mi chiedevo cosa ci fosse dall'altra parte del mondo, cosa stessero facendo gli altri bambini della mia età.

Pensavo di essere già grande: anche se avevo solamente dieci anni, io mi sentivo grande.

Dopo urlavo, gridavo aiuto, e l'aiuto tardava, tardava molto.

Guardavo mio padre: aveva una fontanella di sangue sul petto che non cessava di zampillare.

Piangevo mentre nessuno mi ascoltava, gridavo contro me stessa, anche se non avevo fatto niente.

Chiamavo i miei genitori ben consapevole che non potessero sentirmi.

Osservavo le auto che si fermavano una dopo l'altra di fianco a noi, sbirciavano cosa c'era dentro la nostra macchina, uscivano dalla loro e componevano un numero di telefono.

Rimasi anche a guardare l'ambulanza arrivare strombazzando, ma sentivo soltanto quella maledetta radio, quella maledetta canzone che si ripeteva invano nella mia testa cercando quella via d'uscita inesistente.

Sentivo che anche il mio cuore zampillava quasi quanto il petto di mio padre, solo che ciò che usciva era dolore, un dolore immenso, che nessuno poteva percepire, che nessuno poteva capire, purtroppo, ma anche per fortuna.

Ascoltavo, ricordando, i miei genitori che cantavano, che ridevano, e mi pentivo di essere salita su quella macchina, pur sapendo di non poterci far niente.

Rimpiangevo la mia vita di "prima", quel "prima" che non poteva più ritornare.

Salivo sopra un'ambulanza con ancora in testa delle note ormai familiari, di quella famiglia che ormai non avevo più, e mi sedevo di fianco al corpo che produceva lo zampillo rosso osservando per l'ultima volta il grigioverde dei suoi occhi prima che potessero chiuderli.

Piangevo, di nuovo, inginocchiata accanto al corpo che aveva prodotto una vita e aveva adesso perso la sua, quel corpo che tanto avevo amato e che avrei amato per sempre.

Odiavo sempre di più quel "dopo", quella giornata, quel posto.

Sentivo di dovermene andare, di dover dire addio a qualcosa, mentre pensavo al mio braccio graffiato, alle mie gambe macchiate, alla mia vista appannata, al mio cervello stanco, al mio cuore dolorante.

Non volevo essere lì, ma c'ero.

Ero presente ad una cosa che non volevo nemmeno ammettere che fosse successa davvero: non avevo più genitori e non li avrei mai più avuti.

Via Di FugaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora