4-Harry

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Di nuovo lì, ero di nuovo a casa.

Era passato troppo tempo, ma non mi era mancata, ormai non mi mancava più nulla, e mi andava bene così, non potevo chiedere di più, non mi era permesso.

Erano anni che non varcavo la soglia di quel vecchio orfanotrofio e, ovviamente, appena entrai mi subii una penitenza per averli lasciati per tanto tempo, forse troppo.

Sarah Whittier in stanza con me.

Quella Sarah, la bambina che avevo conosciuto lì e che non aveva mai provato a rivolgermi la parola, la bambina troppo silenziosa, quella che non parlava mai, qualunque cosa tu facessi, o dicessi, l'osservatrice, quella che sapeva e vedeva tutto, anche se tu non proferivi parola.

L'avevo sempre odiata e ora ce l'avevo in camera.

Non mi andava bene, ma ultimamente erano troppe le cose che non riuscivo ad accettare.

Ciò che odiavo di lei era semplicemente il fatto che non si vedesse che aveva sofferto. Era tutto invisibile, nascondeva le sue cicatrici e io sapevo che non era solo la morte dei genitori, a turbarla, odiavo anche questo: che avesse dei segreti per me.

Nessuno riusciva mai a nascondermi qualcosa.

Appena mi diede le chiavi e riuscii a salire in camera la esaminai da cima a fondo: c'era una scatola nell'armadio, decisi di non aprirla e di guardare oltre, così notai la chitarra, era sporca, usata, consumata, graffiata, piena di dolore.

Cercai di collegare quella chitarra a dei possibili ricordi, ma non me ne veniva nessuno in mente e non sopportavo l'idea che lei non avesse la mente aperta alla mia.

Continuai a vagare per la stanza in cerca di segreti da scovare e trovai delle foto, in un cassetto del suo comodino: erano tutte dei suoi genitori, lei viveva ancora con loro accanto, non gli aveva lasciati andare, ecco quale era il suo segreto, non riusciva più a fare niente, adesso.

Mi ricordò qualcuno, mi ricordò me stesso...

No, 'fanculo, non era così, lei era diversa, l'avevo osservata bene quando era piccola, avevo visto com'era: sorrideva, scherzava... non aveva un trauma per ciò che le ricordava il passato, e io adesso dovevo condividere la stanza con qualcuno che non mi capiva
Con una donna, tra l'altro. Non bastavano tutte le donne che mi avevano fregato, doveva aggiungersi anche lei, merda.

Magda era l'unica donna con cui parlavo, dopo l'episodio di Faith, e non me ne pentivo, perché mi era stata sempre vicina e condividere la stanza con Sarah mi sembrava un modo per ripagarla di tutto l'affetto che mi aveva dato.

Guarda, Magda, sto condividendo la stanza con una donna, adesso puoi essere fiera di me.

Un ghigno si impossessò del mio volto: sembravo un bambino in cerca di attenzioni dalla madre, ma forse era questo che ero, un bambino che giocava a fare il grande: un patetico.

Scossi la testa uscendo una volta dalla camera e un'altra dalla casa, sbattendo due porte.

Destinazione: ring.

Salii in macchina e imboccai la strada che portava al club clandestino, quello che mi aveva visto davvero crescere.

Nessuno, tranne chi l'aveva provato, sapeva davvero descrivere com'era salire su un ring: eccitante, confortante e consolante al tempo stesso, lì davo sfogo ai miei pensieri, a tutto ciò che provavo, al dolore che mi tormentava.

Amavo l'adrenalina che provavo a sentirmi forte, ad atterrare tutti quei poveri disgraziati che finivano per tre secondi sotto di me, prima che potessi vincere.

Era così tanta la passione che nessuno mi aveva mai battuto.

Con i giri di scommesse guadagnavo anche un botto di soldi, circa tremila dollari a incontro.

Quello era il mio posto, andavo sempre lì quando volevo sfogarmi e prendevo a pugni qualsiasi cosa mi si parasse davanti, ormai era un rito e nessuno sarebbe mai riuscito a togliermelo.

Entrai dento alla palestra sbattendo l'ennesima porta, ormai anche quello era un rito, e salutai Greg, il quale rimase di sasso nel vedermi.

"Edwards. Non ci credo" cercò di convincersi da solo.

Greg era il proprietario, mi stimava e mi aveva sempre sostenuto, qualunque cosa mi passasse per la testa di fare.

"Eccomi" lo rassicurai.

Notai che stava invecchiando, ma, quando venne verso di me e mi strinse in un abbraccio, capii che la forza e l'audacia erano le stesse di quando lo conoscevo appena.

"Che ne dici, bello? Stasera torni in gioco?" domandò, ma sapeva già la risposta, perché aveva un taccuino in mano pronto a segnarmi sulla lista, così, quando annuii, non ne fu sorpreso e cominciò a scribacchiare il mio nome.

Era bello essere qui, perché la gente mi conosceva come "Harry", non come l'ultimo Edwards.

Qui potevo finalmente dimenticarmi di chi ero, qui non mi ricordavo più di niente, perché era qui che era successo tutto, era qui che la mia memoria di bambino ha curato tutto con un amnesia forzata.

Mi avvicinai ad un sacco e iniziai a colpirlo.

Un pugno, due, tre, e così via...

Sentivo i muscoli contorcersi sotto la mia pelle ad ogni pugno e il sacco farsi sempre più duro, ma non mi importava, era il bello del gioco.

"Ehi, ti esibisci senza di noi?" esclamò una voce.

Mi girai di scatto, fermando il sacco con la mano, senza guardarlo.

Nathan, Niles, Zack e Luke erano davanti ai miei occhi, sorridenti e pieni di tenacia.

"No, Luke, stavo aspettando te, ti va di fare il sacco da boxe?" domandai ironico.

Erano miei amici, ma nessuno mi evitava di parlare loro a quel modo.

Lui scosse la testa e venne verso di me tenendomi il sacco, mentre gli altri tre mi incitavano gridando e prendendomi in giro.

Ad ogni urlo, un pugno più forte.

Tutte le loro parole, i loro insulti, il loro tifo... riecheggiava tutto nelle mie orecchie.

Nathan che batteva le mani e gridava "vai, più forte".

Niles che strillava come una checca nel mio orecchio cose senza senso, solo per farmi innervosire.

Zack che mi insultava, che mi dava del senzatetto, dell'orfano schifoso... si insultava anche da solo, ma allo stesso tempo mi faceva incazzare, e ciò sul ring aiutava molto.

Luke che invece sosteneva il sacco, come sempre.

Era così che avevamo iniziato, non avremmo mai smesso.

Via Di FugaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora