Piume e sangue.

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Caleigh aveva ripreso in fretta i sensi, e si era presto trovata mezza scuola attorno. I suoi nuovi compagni l’avevano immediatamente trascinata in infermeria, ma il grosso donnone che la occupava non aveva trovato niente da ridire, e l’aveva rimandata tranquillamente a lezione. Il fischio non si era, fortunatamente, ripresentato in quelle ore. A fine giornata era tornata a casa, a piedi, ovviamente, perché Lily si era dimenticata di andarla a prendere; non era stato poi così faticoso, così, una volta tornata nella villetta di Hamilton Way, aveva subito detto alla cugina che non avrebbe più avuto bisogno di essere accompagnata, visto che ci voleva così poco (in realtà, al suo passo, c’era voluta una mezz’ora abbondante, ma la giovane aveva deciso che avrebbe usato quel tempo per pensare). Lily aveva, ovviamente, accettato di buon grado. Nei giorni successivi, i quattro ragazzi le erano stati vicino, chi in un modo, chi in un altro, in maniera quasi morbosa, quasi avessero deciso di studiarla; il tutto era durato poco più di una settimana, poi avevano smesso in modo piuttosto brusco. Fatta eccezione per Rose, che a lezione difficilmente si accorgeva della sua presenza, come di quella di chiunque altro, durante la giornata gli altri avevano iniziato ad essere stranamente freddi con lei, come se la conoscessero appena (il che era assolutamente vero, ma anche in piena contraddizione con il loro comportamento dei giorni precedenti). Fatta eccezione per Daniel, che pur nella sua freddezza era assolutamente gentile, gli altri erano diventati persino scontrosi. Ma quel che aveva fatto comprendere a Caleigh, senza mezzi termini, di non essere desiderata, era stato il comportamento di Regan durante una lezione di chimica avanzata: era arrivata stranamente tardi a lezione, talmente tardi che tutti i posti, meno due, erano occupati, uno accanto a Caleigh, l’altro esattamente dal lato opposto dell’aula; Regan aveva altezzosamente preferito il secondo. Caleigh non aveva più mangiato con loro, anzi, a dirla tutta non s’era nemmeno più avvicinata alla mensa: il fischio era, difatti, tornato a tormentarla, seppur in modo lieve, quasi sopportabile; la sua presenza l’aveva, tuttavia, portata a preferire luoghi poco affollati, e la mensa non rientrava di certo tra questi. Così, mentre tutti i suoi compagni si impegnavano a spingere e smaniare per correre verso la perennemente lunga fila, Caleigh si limitava ad avviarsi, in tutta calma, verso la biblioteca, di solito, o verso il giardino. Una piccola parte del suo animo aveva a lungo sperato che uno dei suoi quattro “amici” sarebbe corso a cercarla dopo un giorno o due, ma dopo ben oltre una settimana, anche quella parte s’era dovuta arrendere alla consapevolezza della sua completa inutilità e solitudine. E, in fin dei conti, a lei andava bene così. Se lo ripeteva con fermezza quando, a fine giornata, si ritrovava da sola nel letto, ed era sempre stato sufficiente a portarle un sonno calmo e profondo. Ma non quella sera.

Erano ancora le due di notte, e gli occhi di Caleigh non s’erano ancora riusciti a chiudere; agitata e nervosa oltre ogni limite, non faceva che girarsi e rigirarsi tra le coperte, ormai completamente sradicate e in disordine. Aveva contato le pecore, aveva provato a leggere un libro, aveva provato a camminare un po’ per la casa e persino a bere un bicchiere di latte caldo (suo padre le aveva assicurato, molti anni prima, che era una tecnica assolutamente funzionante). Nulla di tutto questo l’aveva mandata nel mondo dei sogni. Decise di leggere un libro, d’un tratto: se non riusciva a dormire, tanto valeva fare qualcosa di utile. Afferrato dallo scaffale, che aveva ordinato quel pomeriggio, l’unico libro che aveva letto più di una volta, “Foglie d’erba” di Whitman, le sembrò di udire uno strano fruscio proveniente dalla finestra. Si voltò e, col libro ancora in mano, corse a controllare: la finestra era ben chiusa, come l’aveva lasciata prima di mettersi a letto. Il sonno stava iniziando a farle brutti scherzi. Improvvisamente, le sue orecchie furono inondate dal solito fischio, forte come mai prima; gettando il libro a terra, Caleigh si portò le mani sulle orecchie, premendo con forza e pregando che andasse via presto. Lentamente, si accartocciò su se stessa, fino a finire completamente sul pavimento.

Aveva perso i sensi, Caleigh lo sapeva bene, era certa di aver sentito l’urto del pavimento contro la sua testa; eppure le immagini attorno a sé erano nitide, reali, e lei si sentiva estremamente lucida. Si trovava su una spiaggia; una bellissima spiaggia, che le ricordava quella di Falmouth, in Cornovaglia, dove aveva passato le vacanze estive con suo padre, cinque o sei anni prima. Sì, doveva essere proprio Falmouth: le rocce, frastagliate, si gettavano con garbo nell’acqua limpida, trasformandosi prima in sottilissima sabbia. Caleigh sorrise, ripensando con nostalgia agli eterni capricci che aveva fatto, quando aveva pregato il padre di restare lì per sempre. Doveva essere un sogno anche quello, pensò, e decise di goderselo appieno. In fretta si tolse il pigiama, rimanendo con solo la biancheria intima addosso, e si tuffò in acqua. Per quanto fosse assurdo, Caleigh era certa di vedere attorno a sé, in modo straordinariamente nitido, un arcobaleno di pesci d’ogni tipo, che l’attorniavano gioiosamente, quasi volessero giocare con lei; nuotava senza sosta, e il fiato sembrava non mancarle. Decise di risalire, d’un tratto, e in un battito di ciglia raggiunse nuovamente la spiaggia. Ad attenderla, una grossa asciugamano e l’occorrente per un buon pic-nic; in fretta, sebbene non sentisse minimamente la morsa del freddo, avvolse l’asciugamano attorno a sé e si sedette sulla spiaggia. Giunse un uomo, d’un tratto, trasandato e ferito in più punti; correva, guardandosi indietro più e più volte, come se si sentisse seguito. Cadde, trafelato, a pochi passi da Caleigh, che subito si tolse l’asciugamano e corse a vedere se il misterioso uomo stava bene.

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