CAPITOLO CINQUE

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Lindaen non poteva credere che nessuno li avesse avvistati sul sentiero, ma non si sorprese quando non cercarono di fermarli sulla via. Gli Elfi di Imladris volevano farli arrivare a destinazione. L'ospitalità in quel luogo era rivolta a tutti, nessuno veniva escluso. Non incontrarono neanche un Elfo mentre scendevano a valle per raggiungere la città elfica e il percorso fu molto più breve di quanto non apparisse.
Non aveva mai preso quella via per tornare a casa, aveva sempre percorso la strada principale, perciò Lindaen rimase in silenzio per godersi l'aria pulita che si respirava, osservando il panorama come se lo vedesse per la prima volta. Era come una magia, proprio come aveva detto Bilbo: in ogni momento della giornata, sole o luna, l'aria di Imladris sembrava irradiare salute e freschezza.
Man mano che scendevano il sentiero si allargò, cominciando ad essere circondato da alberi di varie specie, tutti rigogliosi e con fiori e foglie verdi, sane. Un paio di scoiattoli si inseguivano tra i rami e un gufo, disturbato dal loro passaggio, bubolò con disappunto.
Infine arrivarono in fondo. Il sentiero finiva a ridosso delle prime case, le cui pareti lisce non sembravano affatto provenienti dalla stessa roccia di cui erano fatte le Montagne. Girarono alla loro destra per passare un ponte di pietra bianca; sotto di loro, un ruscello scorreva lieve e freddo, rumoreggiando senza curarsi di loro, diretto verso il Bruinen per tuffarvisi a capofitto.
Man mano che si avvicinavano, Lindaen provava un desiderio sempre più forte di accelerare il passo. Era come se il tempo e lo spazio si stessero dilatando, anche se erano sempre più vicini le sembrava di allontanarsi. Pur non avendo più intenzione di abbandonare la compagnia, voleva rivedere i volti conosciuti e gli amici, adesso che li aveva così vicini.
La luce era splendida: anche le zone d'ombra non erano del tutto oscure, su tutto era calata una coltre luminosa. Il sole stava cominciando a tramontare. Alla fine, la sera prima aveva avuto ragione: sarebbe stata a casa entro i canti di mezzanotte.
Lasciarono il ponte e si ritrovarono in una piazza circolare, uno spazio aperto e di ampio respiro; gli edifici intorno erano leggeri, proiettati verso il cielo. Le vie si inoltravano tra le costruzioni e una scala ampia portava verso l'alto, risalendo il fianco del monte. Ovunque c'erano giardini pieni di piante e dall'alto di una torre di guardia un Elfo armato di arco li osservava in silenzio, nell'armatura color cenere dei soldati di Elrond. Non tentò di bloccarli.
Davanti a loro, alle spalle di edifici più o meno alti, quasi a ridosso della parete montana, c'era la cascata più ampia di tutte e costruito su di essa, appena sopra il pelo dell'acqua, c'era il grande palazzo del re, con la sua grande balconata che torreggiava sul resto delle abitazioni e le grandi finestre spalancate, le colonne ricche di incisioni, la forma slanciata.
Gandalf si fermò e Lindaen fece lo stesso. Non potevano addentrarsi oltre senza che Elrond desse loro il permesso, perché i Nani non erano membri del suo regno. Bilbo era così concentrato nell'assimilare tutto ciò che stava osservando da aver assunto un'espressione estatica, quasi trasognata; i Nani non si allontanarono di molto, ma gironzolarono nella piazza guardandosi intorno: erano curiosi, anche se non volevano darlo a vedere.
Thorin e Dwalin, i più seri, parlottavano tra di loro, come a dirsi di mantenersi in allerta. Lindaen si trattenne dal ridere: davvero credevano che Elrond avrebbe levato le armi su un ospite? Non lo conoscevano affatto.
Poi, un Elfo scese le scale.
Aveva i capelli castani e lunghi sulle spalle, un diadema d'argento gli incoronava il capo e un lungo mantello viola strisciava sui gradini con delicatezza, senza fare nemmeno un rumore. Il suo viso era di forma allungata e il naso affilato, la fronte alta e intelligente; i suoi occhi castani erano inconfondibili.
L'Elfo rivolse lo sguardo allo stregone.
«Mithrandir», salutò con educazione, usando un altro dei molteplici nomi con cui Gandalf era conosciuto nel mondo.
Lindaen sorrise. Non l'aveva vista.
«Lindir!», gridò.
L'Elfo si voltò verso di lei e il suo sorriso si trasformò in una maschera di sorpresa e meraviglia.
«Onónë!», esclamò.
Lindaen gli corse incontro e gli gettò le braccia al collo, affondando il naso nei suoi capelli. Lindir la abbracciò stretta, sollevandola da terra, e le accarezzò le orecchie.
«Sono così felice di vederti!», disse Lindaen.
«Te ne sei andata senza neanche salutare», la rimbrottò il fratello stringendola forte.
«Mi avresti fatto l'ennesima paternale», rispose lei. Sentiva gli sguardi dei Nani su di sé, ma era troppo contenta per preoccuparsene.
Gandalf si avvicinò e disse allegro: «Ah, Lindir, piacere di rivederti».
Lui lasciò andare la sorella e gli sorrise.
«Avevamo udito che stavate attraversando la valle del Bruinen», commentò.
«Devo parlare con re Elrond», disse Gandalf.
«Il mio signore non è qui», rispose Lindir.
«E dov'è?», chiese Lindaen.
In quel momento il suono di un corno si diffuse nella valle di Imladris, sovrastando qualsiasi altro suono. Era lo stesso corno che aveva annunciato l'arrivo degli Elfi durante l'attacco degli Orchi. Tutti si voltarono in tempo per veder sopraggiungere venti arcieri elfici a cavallo, le armature cenerine che brillavano alla luce del tramonto.
«Eccolo», concluse Lindir.
Il primo di loro portava in mano un'asta su cui garriva lo stendardo del signore di Gran Burrone, segno che il re faceva parte di quella squadra. I cavalieri fecero il giro della piazza, costringendo i Nani a radunarsi al centro, gli zoccoli che pestavano il pavimento di pietra.
I Nani si allarmarono subito.
«Serrate i ranghi!», ululò Thorin.
Bofur agguantò Bilbo e lo ributtò al centro del gruppo di Nani, che sguainarono martelli, spade e asce per difendersi. Lindaen aggrottò la fronte, ma non si mosse.
Doveva essere una scena abbastanza preoccupante per i Nani, che per loro natura vedevano il tradimento ovunque. Osservare venti guerrieri elfici in assetto da guerra raggiungerli a cavallo e accerchiarli non fece che alimentare la loro diffidenza. In più c'era da considerare la notevole differenza di altezza: in groppa ai loro destrieri, gli Elfi dovevano quasi piegarsi per guardare bene i loro ospiti.
Nessuna sorpresa che i Nani si sentissero minacciati e in pericolo. Erano in un regno che non conoscevano, pieno di creature che loro consideravano nemici giurati. Lindaen non poteva biasimarli; tuttavia avrebbero dovuto fidarsi di Gandalf e delle sue parole, non li avrebbe mai portati in un luogo pericoloso.
Infine, l'ultimo cavaliere giunse tra loro. Non portava elmo, unica differenza rispetto ai suoi. Non era abitudine di Elrond cercare di distinguersi tra i propri soldati, preferiva essere considerato uno di loro. Era un'altra cosa che lo rendeva diverso dagli altri sovrani Eldar.
Il volto ancora giovane nonostante avesse alcune migliaia di anni, Elrond Mezzelfo aveva lunghi capelli scuri, raccolti all'indietro, e occhi marroni. Le orecchie a punta erano ben visibili ai lati della testa e il suo sorriso ironico era un suo tratto ormai caratteristico. Li guardò uno ad uno con aria beffarda e divertita, poi spostò il suo sguardo verso i più alti della compagnia.
«Gandalf!», salutò.
«Re Elrond». Gandalf era tutto soddisfatto al pensiero di poter finalmente parlare con il suo vecchio amico. «Mellon nen!».
Elrond smontò. Sul capo aveva una corona d'argento che pareva una pioggia di stelle sulla sua fronte. Si avvicinò con un largo sorriso e lui e Gandalf si abbracciarono.
Poi, il re voltò lo sguardo.
«Lindaen», la apostrofò con ironia. «Di nuovo tra noi?».
«Aran nen», disse lei con deferenza, chinando il capo. «Sono solo di passaggio, con il tuo permesso, mio signore».
«Non ti serve il mio permesso», ribatté lui, «non mi hai mai comunque ascoltato, ma è il prezzo da pagare per impedire a Gandalf di stordirmi con le sue chiacchiere».
Lo stregone, per nulla interessato a quello scambio di convenevoli, intervenne: «Dove sei stato?».
«Davamo la caccia a un gruppo di Orchi venuti dal sud», spiegò Elrond. «Ne abbiamo uccisi diversi vicino a Ultimo Ponte. Strano, per gli Orchi, avvicinarsi tanto ai nostro confini», commentò «Qualcosa, o qualcuno, li ha attirati».
Elrond ammiccò e i suoi occhi vagarono sui Nani, ma non li osservava con severità o rabbia. Erano loro, piuttosto, a guardarlo furibondi.
«Ah», disse Gandalf. «Siamo stati noi».
Elrond mosse un passo in avanti, avvicinandosi ai Nani. Li guardò uno ad uno, come se volesse studiarne la fisionomia, e quando parò di nuovo parve trascorsa una piccola eternità.
«Benvenuto, Thorin, figlio di Thrain», lo salutò.
La voce del Nano non sembrava arrabbiata, ma era comunque gelida e altezzosa quando replicò: «Non penso che ci conosciamo».
«Tuo nonno aveva lo stesso portamento», rispose Elrond con cortesia. «Conoscevo Thror quando regnava sotto la Montagna».
«Ah, sì? Non ti ha mai menzionato».
C'era una tacita sfida nella voce di Thorin. Lindaen, però, sapeva che Elrond non avrebbe ceduto alle minacce: il suo re non disprezzava i Nani, semmai il contrario, e non si sarebbe lasciato trascinare in una discussione con uno di loro. Il sovrano guardava Thorin con gli occhi ridotti a fessure, ma c'era del divertimento nella piega delle sue labbra. Tutti tacevano, in attesa.
Poi, Elrond disse con voce chiara: «Nartho i noer, toltho i viruvor. Boe i annam vann a nethail vin».
Thorin, a quelle parole, non seppe come replicare. Non sapeva cosa significassero e si trovava in netto svantaggio. Lindaen pensò che fosse proprio ora che quel Nano tanto borioso imparasse un po' di umiltà: sfidare il padrone di casa non era mai una buona idea ed Elrond era chiaramente in una posizione privilegiata, padroneggiando una lingua che lui non conosceva.
«Che sta dicendo?», esclamò Gloin. «Quello ci sta offrendo insulti!».
«No di certo, Gloin», spiegò Lindaen. «Il re vi sta offrendo del cibo».
A quel punto nessuno riuscì più a trattenersi e Lindaen, Lindir, Gandalf ed Elrond si lasciarono andare a risate divertite. I cavalieri elfici ancora in formazione sorrisero a loro volta. I Nani, non riuscendo a cogliere lo scherzo, li guardavano allibiti.
«Oh, avanti», disse Gandalf facendo un cenno a Bombur, che alla parola "cibo" sembrava essersi perfino alzato di statura. «Stava solo scherzando! Ridete un po'!».
I Nani si strinsero tra loro e cominciarono a parlottare a bassa voce. Elrond attese i loro tempi, paziente, e quando di colpo il chiacchiericcio nanico si interruppe li guardò con occhi interrogativi.
«Ah, beh», disse Gloin, «allora facci strada».
I Nani marciarono rumorosamente alle calcagna del signore elfico, più calmi, ma ancora diffidenti.
Lindaen fece per voltarsi e seguire Elrond, ma la mano di Lindir intercettò la sua.
«Vieni a rinfrescarti a casa», la invitò.
Salutò con un cenno Gandalf e Bilbo e seguì suo fratello; non imboccarono la via per il palazzo di Elrond come i Nani, che si muovevano parlando ad alta voce, commentando ciò che vedevano e chiedendo se ci sarebbe stata della birra di malto per cena. Lindaen era divertita: non c'era mai stato tanto rumore a Imladris come in quel momento.
Si avviarono per una strada dritta, fatta di grandi lastre di pietra, e superarono un ponte stretto per oltrepassare un piccolo strapiombo.
«E così adesso vai in giro con i Nani».
Lindaen sbuffò.
«Per favore, sono appena arrivata. Non iniziamo subito a discutere, toron».
C'era una fila di case isolate, piccole e graziose, con tetti di tegole azzurre e alte finestre senza vetri né tende. L'aria, lì, era spesso umida per via di una cascata che pioveva a ridosso della parete di una delle case, ma era anche sempre fresca e profumata. Lindir la precedette all'interno di una delle porte.
Dentro, la penombra della sera oscurava quasi ogni cosa e così si affrettarono ad accendere candele e lumi di vetro.
Le case messe a disposizione dei servitori personali di Elrond non erano particolarmente vaste, ma dopotutto i loro proprietari passavano buona parte delle loro giornate nel palazzo del re. C'erano solo un bagno, due camere da letto, un accogliente salotto che i due fratelli usavano di rado e un balcone al piano superiore che concedeva loro una splendida visuale sulla città. Non c'era cucina, perché i pasti venivano consumati nel palazzo di Elrond.
Lindaen entrò nella propria camera da letto e Lindir si sedette su una poltroncina di legno mentre lei spariva dietro un paravento.
«Quindi di che si tratta?», indagò Lindir, fingendosi disinteressato con scarsi risultati. «Quale sarebbe il grande scopo dell'impresa?».
Lei gli scagliò addosso la camicia da dietro il paravento.
«Non posso dirti niente», ribatté.
«Ti hanno fatto giurare di mantenere il segreto?».
Lindir dovette abbassare la testa per evitare di venire colpito dai pantaloni della sorella.
«No», rispose lei, «ma credimi, toron, meno persone sanno dove stiamo andando, meglio è».
«Ma io ho il diritto di saperlo, sei mia sorella!».
Con maggiore delicatezza, Lindaen allungò una mano e posò gli stivali sul pavimento, anche se ebbe la tentazione di gettarglieli addosso ugualmente. A tentoni afferrò una vestaglia di seta da una sedia lì accanto ed uscì.
«Questo non centra un bel nulla», replicò ostinatamente. «Non arrabbiarti, Lindir, lo sai come la penso...».
«Alla tua età dovresti pensare a ben altre faccende, non a saltellare qua e là per la Terra di Mezzo con dei Nani».
Aveva un solco profondo sulla fronte e le orecchie rosse: capitava sempre, quando si inalberava. Divertita dal suo atteggiamento, Lindaen ridacchiò.
«Ad esempio?».
«Ad esempio, cercano un nuovo addetto alle decorazioni per la Sala del Fuoco», suggerì.
«Lindir...», sospirò Lindaen.
«Non sto dicendo che dovrai farne la tua ragione di vita», si affrettò a spiegare lui. «Dico solo che è parecchio che non ti fermi per più di poche settimane. Ogni volta te ne vai senza nemmeno dirmi addio ed io sto qui ad arrovellarmi pensando che non ritornerai più a casa».
Lindaen scosse il capo.
Non voleva farlo soffrire, amava molto suo fratello e non desiderava vederlo triste. Sentì riempirsi il cuore di dolcezza: Lindir era indipendente, risoluto e deciso, eppure certe volte sembrava tornare a quando erano bambini.
«Non pensare che farò la fine dei nostri genitori», disse dolcemente. «Il fatto che io non torni spesso a casa non vuol dire che non lo farò mai più. Abbiamo la fortuna di avere secoli a disposizione per stare insieme, Lindir».
Lui fece una smorfia e la guardò di sottecchi.
«Prima o poi», profetizzò, «sceglierai di fermarti da qualche altra parte senza di me». Si alzò in piedi e le posò la mano sulla spalla. «Non è il viaggio», spiegò, «non è il fatto che ti allontani per lunghi periodi a preoccuparmi. Andarsene in giro è bello, lo ammetto. Ciò che mi fa preoccupare è il non sapere mai se e quando tornerai».
Lindaen non rispose.
Lo capiva. Al suo posto sarebbe stata altrettanto preoccupata: era l'unica persona che gli era rimasta, l'unico parente stretto ancora vivo, ma non poteva promettergli che sarebbe restata a casa. Barricarsi dentro Gran Burrone per i secoli a venire, per quanto bella e pacifica fosse la valle, l'avrebbe resa solo più infelice.
«C'è qualcosa che mi manca, qui», ammise. «Qualcosa che a Imladris non posso trovare. Non so cosa sia», aggiunse, «ma è ciò che sto cercando. Cerco un luogo che non mi faccia venire voglia di andarmene. Ti invidio, Lindir, perché tu hai trovato il tuo posto nel mondo: sei felice qui».
Lui le rivolse un sorriso addolcito.
«Non lo cambierei con niente», confermò.
«Anche io voglio sentirmi così», disse lei con trasporto. «Voglio guardarmi intorno e dire "Questo è il mio posto, qui è dove devo stare". Solo che non so dove sia».
Non glielo aveva mai detto così apertamente. Nonostante avessero discusso più e più volte in toni accesi, non aveva mai ammesso che era quello il vero motivo – non lo aveva mai ammesso nemmeno a se stessa. Il fatto di averlo detto ad alta voce le diede una strana sensazione di liberazione.
«Sei come nostra madre, anche lei era un animo irrequieto», fece Lindir. Sbuffò, ma non era arrabbiato. «Lo capisco. Non posso fare molto per impedirti di ripartire, anche se vorrei con tutto il cuore che tu trovassi la tua pace. Dimmi la verità, Lindaen: sei felice, così?».
«Sì».
Lindir tese le spalle e giunse le mani dietro la schiena. Aveva un qualcosa di altezzoso, quando era in imbarazzo, che Lindaen trovava molto buffo.
«Non posso fermarti, vero? Non me lo permetteresti. Io... Beh, io devo andare, presto la cena sarà pronta». Si guardò intorno, come per cercare una scusa migliore per allontanarsi. «I tuoi compagni Nani sanno usare le posate, vero?».
«Non essere maligno!», rise Lindaen.
«Stavo solo chiedendo». Lindir ammiccò.
Quando suo fratello se ne fu andato, Lindaen si infilò nella stanza da bagno, aprì i rubinetti che pompavano acqua direttamente da un ruscello, in alto sulle Montagne Nebbiose, e riempì la tinozza. Quando vi si infilò, l'acqua era gelida, più fredda che mai, ma a lei piaceva.
Si lavò a fondo, poi uscì e si pettinò i capelli nell'attesa che si asciugassero. Una folata di vento fece entrare dalle finestre alcune foglie strappate dagli alberi.
Spalancò l'armadio a muro, le ante dalla forma affusolata che cigolavano piacevolmente. Lindaen conosceva molto bene quel rumore. Scelse un abito blu notte di un velluto leggero, assaporando la sensazione della stoffa morbida sulla pelle. Per quanto potesse insistere sul fatto che viaggiare era la sua vocazione, nessun paio di pantaloni avrebbe mai sostituito il piacere di un bel vestito addosso. Lasciò la spada nel suo fodero, appoggiata sul letto: non ne avrebbe avuto bisogno, lì.
Quando uscì di casa era già buio e le luci nelle strade erano già state accese: sembravano tante creature fatate, brillavano dentro a gocce di vetro e illuminavano le vie, le piazze e i ponti.
La conversazione con Lindir l'aveva lasciata più spossata del previsto. Ogni volta che affrontavano quel discorso lei provava un profondo rimorso, ma come poteva cambiare la propria natura? La verità, che a Lindir non avrebbe mai confessato, era che non c'era nulla, a Gran Burrone, che facesse valere la pena di restare: nemmeno il suo stesso fratello.
Era chiaro che cercava qualcos'altro.
Il palazzo, man mano che vi si avvicinava, si rivelava sempre più animato. Salutò una coppia di guardie del re lungo il ponte che conduceva alle porte e loro la lasciarono passare.
Sentiva un piacevole suono di arpe e archi venire dal grande salone delle feste, la cui parete esterna in realtà non era altro che un colonnato che lasciava entrare la luce delle stelle. Si vedevano luci accese provenire dall'interno. Una sala alla volta, Lindaen si diresse verso il suono delle voci e della musica e, quando varcò la porta, la vista dei Nani seduti ad un lungo tavolo apparecchiato la lasciò piuttosto compiaciuta: le sedie erano troppo alte per loro, così i loro piedi penzolavano, e chiacchieravano tra loro a voce alta, molto più rilassati rispetto al momento del loro arrivo.
C'era un altro tavolo, rotondo e più piccolo, apparecchiato per pochi invitati. Doveva essere il tavolo di Elrond, del quale però non c'era traccia. Ovunque c'erano candelabri d'argento accesi e inservienti pronti a versare altro miruvor, il vino elfico preferito dal signore di Imladris.
Non lontano dal tavolo delle autorità c'era un basso palchetto dove alcune dame elfiche erano intente a intrattenere gli ospiti con musica delicata tipica della loro gente.
C'era un generale clima di festa. Non ne fu sorpresa, Elrond non lesinava mai cibo e vino quando c'era qualche occasione per un convivio.
«Lindaen!», esclamò la voce di Bilbo.
Lo cercò con lo sguardo e lo trovò seduto in mezzo ai Nani, con un pezzo di pane nella mano e un largo sorriso. Sembrava immensamente deliziato nel trovarsi in una stanza elfica, intento a mangiare cibo elfico da piatti elfici.
«Buonasera», salutò sorridendo e avvicinandosi al tavolo. «Come sta andando?».
«Che cos'è questo?», intervenne Ori, tirandola per la manica dell'abito. Lindaen gli si avvicinò e osservò il contenuto del suo piatto.
«Insalata», spiegò.
«Oh», disse Ori tutto sconsolato.
Suo fratello maggiore Dori, seduto al suo fianco, lo esortò con un po' di pazienza: «Dai, assaggiala. Soltanto un boccone».
Ori scosse ostinatamente il capo.
«Non mi va il cibo verde», decretò.
«Non c'è della carne?», indagò Dwalin.
Oin inforcò con il coltello un pezzo di cipolla e la annusò, un po' affranto.
Lindaen guardò Bilbo: era l'unico ad aver già assaggiato quasi ogni pietanza che c'era nelle ciotole sul tavolo e si stava servendo una seconda porzione di tutto.
«Ce le hanno le patate fritte?», chiese Ori guardandosi intorno.
Lindaen rise e si avvicinò ad uno degli inservienti di portare qualcosa di più appetibile al gusto nanico; lo guardò schizzare via, ansioso di fare bene il suo lavoro per compiacere il suo re.
«Sta arrivando altro cibo», tranquillizzò i Nani. «Vi piacerà di più del nostro, ci saranno carne, patate e pesce salato».
Loro approvarono con un applauso che fece storcere il naso a parecchi degli Elfi presenti.
In quel momento Gandalf si materializzò al suo fianco, come se fosse sbucato fuori dal nulla.
«Ci sono delle docce, in questo posto, che mi stupiscono ogni volta che le uso», commentò. «Vieni, andiamo a mangiare».
Lindaen pensava che si sarebbe seduta al tavolo dei Nani: non era mai stata ammessa al tavolo privato di Elrond, dove di solito lui cenava con la propria famiglia e gli ospiti di maggior riguardo. Sentì che la punta delle orecchie diventava calda e, molto probabilmente, anche parecchio rossa.
Seguì Gandalf al tavolo più piccolo, da dove la musica si udiva più distintamente, e si accomodò accanto a lui. Lo stregone sistemò il bastone contro una colonna alle sue spalle.
«So che volevi andartene», disse all'improvviso lui. «Giusto ieri sera, o sbaglio?».
Lindaen lo guardò quasi sgomenta.
«Come facevi a saperlo?».
«Io so sempre tutto», rispose Gandalf.
«Sappiamo entrambi che non è affatto vero. Allora, come lo sapevi?».
«Perché ho viaggiato molte volte con te e ormai mi accorgo di quando vuoi fare qualcosa che non dovresti. Ti viene una luce negli occhi diversa, quando stai per disobbedire agli ordini».
Un po' indispettita per la propria prevedibilità, Lindaen replicò: «Beh, e quindi? Io non ho firmato alcun contratto con Thorin, non sono vincolata a questo viaggio».
«Lo so», rispose Gandalf, una certa dolcezza degli occhi azzurri. «Ed è per questo che sono ancora più contento che tu non te ne sia andata. Non so cosa ti abbia trattenuta, a parte quei Troll», aggiunse, «ma sono molto felice che tu sia rimasta».
Senza sapere cosa dire, Lindaen sorrise e tacque.
Elrond li raggiunse pochi minuti dopo insieme a Lindir e loro si alzarono in segno di rispetto. Si accomodarono e i servitori cominciarono a portare loro coppe di vino, ciotole e piatti colmi di cibo leggero e gradevole. Thorin, in quanto a capo della compagnia dei Nani, fu invitato a unirsi a loro.
«Sei stato gentile a invitarci», si complimentò Gandalf. «Non sono vestito per la cena!».
«Beh, non lo sei mai», rise Elrond.
Con la coda dell'occhio, Lindaen vide Bombur impossessarsi di un intero vassoio di forme di pane.
Dopo aver mangiato qualche boccone, Gandalf propose a Elrond di controllare le loro spade. Sia lui che Thorin passarono i pregiati foderi al sovrano elfico, che ne studiò la fattura e infine estrasse le lame per osservarle.
«Questa è Orcrist», disse osservando la spada di Thorin, «la Fendiorchi. Una lama famosa», aggiunse, «forgiata dagli Alti Elfi dell'ovest, la mia famiglia». Gliela restituì; nelle sue mani, sembrava quasi non avere peso.
Thorin non sembrava indispettito da quella conversazione: forse aveva finalmente accettato la gentilezza di Elrond, oppure si era semplicemente rassegnato.
«Possa servirti bene», gli augurò Elrond.
Il Nano chinò il capo con riconoscenza, pur non abbassando lo sguardo.
«E questa è Glamdring», disse ancora il re, estraendo la spada di Gandalf dal suo fodero, «la Battinemici, spada del re di Gondolin. Queste spade furono forgiate per la guerra contro Morgoth. Gandalf, come ne sei entrato in possesso?», chiese con curiosità.
«Le abbiamo trovate nel bottino dei Troll sulla Grande Via Est», spiegò lui, «poco prima di un'imboscata degli Orchi».
«E che stavate facendo sulla Grande Via Est?», chiese Elrond con un sorriso sardonico.
Lindaen e Lindir si scambiarono uno sguardo: era molto probabile che il re sapesse già tutto e che volesse solo sentirselo dire da Gandalf.
Thorin, infastidito da quelle domande, si alzò.
«Scusatemi», disse educatamente, poi si alzò e si allontanò per andare a scambiare alcune parole con Balin, seduto al tavolo dei Nani.
Lo guardarono andare via senza fiatare, poi Elrond sollevò un calice di vino e se lo portò alle labbra.
«Tredici Nani, un Elfo e un Mezzuomo», commentò pensieroso. «Strani compagni di viaggio, Gandalf».
Lindir lanciò un'occhiata alla sorella, come a dire "Te lo avevo detto". Lei lo ignorò.
«Sono discendenti della casa di Durin», disse Gandalf. «Gente nobile, onesta e sorprendentemente colta».
Le parole di Gandalf erano probabilmente veritiere, ma il loro effetto fu vanificato dal poderoso rutto con cui Dwalin deliziò la tavolata dei Nani.
Questo, unito al fatto che il cibo ordinato da Lindaen era finalmente arrivato, parve ringalluzzirli tutti: cominciarono a battere le mani per complimentarsi con Dwalin, poi Nori chiese a gran voce di cambiare musica e Bofur lo prese in parola, si alzò in piedi sulla propria sedia – il che lo poneva all'altezza di un Elfo normale – e tutti nella sala tacquero. La giovane arpista smise immediatamente di suonare, allibita.
Lindaen si trattenne dal ridere delle espressioni degli Elfi: sembravano completamente spaesati. In un campo di battaglia sarebbero stati più a loro agio.
Bofur spalancò la bocca e cominciò:

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